TERREMOTO: E SE ACCADESSE AD AGRIGENTO? CON I DOVUTI SCONGIURI... di Davide Natale

Le immagini del terremoto in Abruzzo hanno suscitato un’infinità di pensieri e scatenato un’orda di forti emozioni da contenere, da esorcizzare trasferendole al vicino di casa, al parente, all’amico o al viandante intervenuto per qualche istante nel procedere della nostra quotidianità, comunicando lo scoramento, l’angoscia, la propria intima interpretazione dell’accaduto. E immagino, li vedo già, capannelli di gente accorarsi in teorie e ipotesi, incubi o semplici ringraziamenti al divino, al fato e, al contempo, accuse al Governo, al politico e, se è vero che piove governo ladro, figurarsi quando viene giù una città intera e un arcipelago di paesi e borghi, piccoli agglomerati di case in pietra. La pietra, le pietre, le case. Come in pietra di tufo giallo sono le sempre più scassate case del centro storico di Agrigento. Per iniziare, una domanda: Ma se fosse accaduto ad Agrigento un terremoto simile, cosa, del centro storico, sarebbe rimasto in piedi? Domanda per nulla originale, certamente. Ma le domande, se non seguite da risposte, portano il peso di dover essere reiterate. Quanti agrigentini, infatti, hanno pensato e domandato in questi giorni: E se fosse accaduto ad Agrigento? Certo, come sono e certi come siamo, di poter dare una risposta non di molto lontana dalla realtà, proviamo a ipotizzare qualche scenario. Il centro storico sarebbe polverizzato, accartocciato su se stesso, come un foglio di carta ridotto a coriandoli. I vari quartieri satellite e i molti palazzi moderni se, come ci auguriamo, figli dell’onestà, sarebbero malconci ma, tutto sommato, ancora integri. Se invece disgregatisi, similabili ad una flagranza di reato, degno di azioni giudiziarie nei confronti dei vari progettisti e impresari colpevoli. Di una cosa, comunque, non possiamo avere dubbi. Via Neve, ad esempio (e non me ne vogliano gli abitanti), via Bac Bac, via Foderà o cortile Tornabene, via Garibaldi o piano Sanso, diciamolo fra noi ed in sincerità, con più che buona ed esatta anticipazione del futuro verrebbero cancellati definitivamente dal segno urbano della città. Mi domando quindi: se crollasse un palazzo di cemento e ferro, pensato e realizzato con metodologie progettuali figlie della teoria antisismica moderna tutti noi sapremmo individuare i colpevoli? Penso di sì. Operazione, del resto, molto semplice. Sarebbe sufficiente recarsi al Comune, all’ufficio competente e, da qualche scassato armadietto di metallo estrarre, fra le infinite carte, quelle riguardanti il palazzo in questione. Fare due semplici calcoli, leggere il nome dei responsabili e, pochi attimi dopo, accompagnarli a contrada Petrusa. Fatto, trovati i colpevoli si esegue la pena. Ma per l’ipotetico crollo del centro storico (qualora accadesse ciò che tutti dicono di non volere ma soltanto a parole), chi dovrà guardare il cielo a strisce? E le domande, adesso, cominciano a complicarsi, forse, un po’ di più. Diventa, certamente, più ampia la latitudine (e la longitudine, invero), entro cui muoversi per individuare i responsabili. Alla fine, penso, sarebbe necessario costruire in fretta un capiente, e speriamo realmente antisismico, carcere. Che fare, quindi? Attendere lo schianto o provare a giuocar d’anticipo?
Piccola divagazione: Ipotizziamo che un muro di sostegno, ad esempio in via Giovanni XXIII, cominci a comunicare la sua sofferenza. Ipotizziamo che inizi a chiedere aiuto, sostegno, cure. Lo chieda ai passanti, ai viandanti, agli amministratori di questa città. E il muro, poveretto, nel suo chiedere, domandare, implorare aiuto cominci ad incurvarsi sempre più, come un vecchietto, come il nonno, sotto il peso degli anni ingobbisca sino al limite. E supponiamo che la famiglia tutta, a quel punto, resasi conto dell’enorme sofferenza del nonno decida, finalmente, di considerala degna di attenzione e trovi la soluzione, la cura. Cingere tutt’intorno il nonno con un nastro rosso per evitare che qualcuno possa avvicinarsi. Spranghete! Il botto è fatto. E poi tutti a piangere e dire che stava male, poveretto, che soffriva ed era evidente, tant’è che non mangiava più, che dormiva poco ed era pallido. Ad Agrigento è accaduto, di recente, qualcosa di simile. Fortunatamente non è morto nessuno sotto le pietre, solo qualche automobile è stata ridisegnata, qualche giornalista ha trovato l’ispirazione per urlare ed urlare, avverbi e participi passati a coazione, e poi la passerella, la ricostruzione, i soldi e le conferenze stampa, e quindi bravi tutti e, come al solito baciamo le mani...
Crollato il centro storico, però, le cose sarebbero diverse. Trovati i colpevoli, almeno quelli, cosa rimarrebbe della memoria, se esiste una memoria, di questa città? La frana ha già espulso gli attuali abitanti di Villa seta. E abbiamo visto come è finita. Insiste, sotto la nostra quotidiana vista, quel che gli urbanisti e i politici hanno pensato. Bravi davvero, complimenti! Conservare la memoria, preservare la storia, consegnare qualcosa ai futuri abitanti di questa città ha significato, semplicemente, erigere un ghetto algido ed un ponte dagli enormi piloni che congiunge il vecchio al nuovo. Ma qualora il dio della terra dovesse, semplicemente tossire, starnutire, cosa sarà della via Atenea? E della Bibbirria tutta? E di piazza Purgatorio, del Duomo, di piazza Ravanusella? Qualche considerazione: i centri storici, per loro natura, e come a tutti noto, contengono una serie infinita di depositi e stratificazioni che, nel corso degli anni, hanno lasciato traccia di sé attraverso innumerevoli accadimenti urbanistici e costruttivi. Alcuni degni di nota come palazzi nobiliari, chiese, edifici straordinari per fattura e intelligenza e che posseggono, loro stessi, un valore intrinseco di inestimabile valore storico. Altri, al contrario, per semplicità e povertà posseggono, invero, un valore derivato dalla loro giustapposizione e dall'inserimento all'interno del tessuto urbano che concorrono a costituire e dal quale ricevono rilievo e significato creando, con il loro posizionamento, lo spazio vuoto delle strade, dei vicoli, delle piazze e dei cortili. Sono straordinari, dunque, perché, come un tassello di mosaico, concorrono a comporre un'immagine, un insieme, una cosa altra e di gran lunga più rilevante rispetto al valore proprio. Ecco, quindi, perché tutelati e protetti anch'essi. Ma, invero, è in questo duplice significato che si innesca quel corto circuito che, nel caso di Agrigento, ma non solo, non consente una visione corretta, non distorta, lucida. Ogni edificio del centro storico, se non di valore architettonico, quindi riconoscibile, è da tutelare perché, dunque, concorre alla composizione del tutto, perché parte fondamentale del suo aspetto esteriore, della sua fattura, forma, posizione, perché disegna l'immagine della città. Si tutela, dunque, il contenitore che, legato agli altri contenitori, consente una visione riconoscibile dell'insieme. Il contenuto, invece, l'interno, la natura privatistica del suo esistere, l’odore del pranzo del vicino, il bagliore della tenda che sventola dal balcone di fronte, l’odore del caffè al mattino che annuncia che l’inquilino di sotto è sveglio, l’urlo della signora che chiama la nipote ed io, che provo a dormire e non riesco, il gatto che miagola, il venditore ambulante, l’odore che fuoriesce dal panificio, rumore di passi per strada, il vecchietto, barba appena fatta, che mi saluta per il sol fatto che mi vede da due giorni e già mi riconosce. Anche questo, oggi, ad Agrigento è centro storico. Ma per quanto tempo ancora? Cosa e come, in sintesi, tutelare, proteggere per consegnare al futuro? È questo un quesito di non semplice risoluzione. È questo il dibattito che necessita aprire ad Agrigento, senza che qualcuno possa, per indomita necessità di imporre un’idea su un’altra, consentire al tempo di decidere per noi. Cosa, dunque, appartiene alla collettività e cosa all’ambito privato? Cosa, sia al pubblico che al privato, è concesso? Quanto è pubblico, ad esempio, un palazzo qualsiasi del centro storico di Agrigento e quanto privato un palazzo di periferia, moderno e anonimo, introverso, chiuso, alto, solo? È necessario, quindi, trovare una soluzione, un rimedio, un appiglio legale, economico, un modo qualsiasi che politici, amministratori, professionisti, avvocati, giuristi, economisti, imprenditori di questa città devono scovare fra il dedalo della burocrazia e della finanza. Roba complessa e complicata, di leggi e tabelle, regolamenti e commi, tassi legali e importi capitali, progetti di finanza e leggi speciali, articoli e, se necessario pugni sul tavolo, porte chiuse con violenza e riaperte senza timori, dimostrando la volontà politica fino ad oggi, assolutamente, assente, inesistente, distratta e colpevole. E quanti, mi domando ancora, fra il ''partito del centro storico di Agrigento'', a cui io stesso sono iscritto fedele e convinto sostenitore, sarebbero d'accordo a soluzioni estreme come, ad esempio, la demolizione di quanto, concretamente, impedisce la ricostruzione del centro storico? Quanti, fra gli illustri ben pensanti, intellettuali di questa città sarebbero pronti a far attraversare le loro idee dalla realtà e, se necessario, confutarle? Si potrebbe, allora, parlare anche, e compiutamente, dei ''Tolli'' di Agrigento, del loro incomprensibile e osceno insistere a nascondimento del mare e della Valle, a mortificazione della vista della città, e discutere del loro inevitabile taglio, ridimensionamento (ah! se fossero stati splendidi eucalpti). Come non prevedere, infatti, con coraggio e forza, con intelligenza e senza alcun ideologico impedimento, un loro complessivo ridisegno (tecnicamente possibile)? La contraddizione, infatti, della loro insistenza sul tessuto del centro storico ed il vincolo degli edifici che lo compongono è, credo, non accettabile.
Ma intanto siamo distratti da una domanda, retorica come poche, che qualcuno ha voluto imporre al centro del dibattito politico cittadino come se non ci fosse altro di molto più importante da fare, altro a cui appigliarsi per giustificare il proprio passato prossimo, la propria esistenza collettiva. Invero, sono certo, sarebbe stato sufficiente, in una domenica di sole (che belle le domeniche di sole!), chiamare tutta la cittadinanza a raccolta in una delle tante piazze del centro, e cessati i rullanti dei piccoli tamburi e identici oggetti buoni, forse, soltanto ad esser percossi, megafono in mano e piedi su di una sedia il Sindaco di questa città, a domandare, porre la fatidica domanda: ''Cittadini di Agrigento siete favorevoli alla costruzione del rigassificatore a Porto Empedocle?''. E tutti in coro, o per alzata di mano - ''NOOOO!'' - (non vedo, per quel che mi consta, altra possibile ed intelligente risposta). Chiuso. Fatto. Risolto. Roba di cinque minuti e tre soldini.
E adesso andiamo avanti che ci stanno cose serie da fare, per giocare ci sarà, spero, ancora tempo. Che qui, se a qualcuno scappa un colpo di tosse, sono guai.
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