SI CHIUDE IL CERCHIO PER SALVO MONTALBANO? di Dante Bernini
Quale sarà il destino del commissario più celebre d’Italia? Il dottor Salvo Montalbano vive da molti anni, quanti bastano a un funzionario per avviarsi alla pensione, addetto ad un commissariato di polizia nella sede appartata di Vigata sulla costa meridionale dell’isola di Sicilia, in un luogo non molto lontano da Porto Empedocle, città natale dell’autore Andrea Camilleri, almeno per ciò che riguarda le storie narrate nei romanzi, perché molto lontana da qui è invece la localizzazione dei telefilm ai romanzi ispirati, e che di fatto sono ambientati in altra dimensione geografica e culturale, che è sempre in Sicilia, ma sui monti Iblei, fra la scogliosa Scicli e le alte cattedrali barocche che in quei luoghi si ergono contro l’orizzonte. O almeno così sembra a me che ho letto molto anche se non tutto dell’amico Andrea che spero non me ne vorrà e non m’ includerà perciò nella lista dei traditori. Infatti, nonostante gli sia amico affezionato e grato, mi porto dentro un principio ferreo da osservare, quello di non leggere più di tre o quattro libri della stessa serie, se non del medesimo autore, per non soffrire la malinconia della ripetitività anche involontaria, e quel fastidioso senso di pienezza, che è la giusta punizione dell’ingordigia.
Ogni destino si conclude tautologicamente con la fine del personaggio, e da un bel po’ ormai si è svegliata l’attenzione dei lettori su quella che dovrà essere l’immancabile fine del commissario Montalbano, quando sarà, come sarà? Ma la fine di un personaggio è nella fantasia del suo autore, il quale, se non altro per sacrosanta scaramanzia, visto che ogni autore, quasi senza eccezione, quando più quando meno inconsciamente, s’identifica con la sua creatura, nega di averne, almeno per il momento, corna facendo, prevista alcuna, mentre il suo editore Elvira Sellerio mi pare abbia dichiarato una qualche volta che l’ultimo libro di Montalbano lei ce l’ha già, consegnatole da Camilleri, nella sua cassaforte, e lo farà uscire al momento opportuno, il momento giusto del personaggio, com’è per ogni creatura vivente.(Se ricordo male, sarei contento di essere corretto).
Ma come ogni altra creatura vivente, preparandosi all’atto conclusivo della sua vita di personaggio, prima di scomparire Montalbano pensa di avere ancora alcune cose da mettere a posto, equivoci da dissipare, rapporti da sistemare una volta per tutte, il recupero in extremis di una vicenda conclusasi in modo insoddisfacente, come può essere una ricompensa negata, o una punizione condonata contro ogni regola di giustizia, infine una vendetta magari piccola da consumare nel ricordo di angherie, vere o immaginarie, subite da parte di persone di cui ciecamente si era fidato.
Se l’ipotesi è corretta, potrebbe dunque trattarsi, per questo ultimo (penultimo?) libro oggi uscito, del testamento spirituale del commissario Montalbano, steso a mente chiara nel bel mezzo di un caso di omicidio multiplo, tra i più problematici, e certo il più crudele, della sua carriera di bravo “sbirro” esperto nel dipanare le più complicate matasse che possono aggrovigliarsi in un ambiente storicamente criminale, tradizionalmente dedito al malaffare e all’inganno. La scena è stata immaginata con un colpo d’ingegno difficilmente raggiungibile, scansando il paesaggio noto, l’ambiente naturale, il mare col pontile deserto da percorrere lentamente fino al faro o dov’è l’angolo di mondo adatto all’isolamento e alla meditazione. Non è più o non è solo una questione di contadini, pastori, piccoli killer al soldo della mafia, o miserabili pusher da strapazzo. Quando si alza il sipario è la storia che appare nel suo aspetto più nobile e meglio sarà dire sacro. Si tratta del Vangelo secondo Matteo, dove si parla di Giuda, del suo tradimento, del prezzo del tradimento, i trenta denari che i sacerdoti rifiutano e che Giuda rabbiosamente sparge sul pavimento del tempio, e diventeranno poi il prezzo d’acquisto del “campo del vasaio” destinato alla sepoltura di quanti hanno tradito, così uscendo dalla comunione della propria gente. Con questi nobili antecedenti, il racconto di un delitto diventa una vera e propria “recherche” che risale nel ricordo all’ambiente nativo di Montalbano. Nella difficile inchiesta che sta conducendo tra numeri magici e cabale massoniche, trova il modo di fare un viaggio appresso alle immagini della sua infanzia, verso un paese, il paese del padre, dal nome improbabile di Mascalippa, coi suoi odori agresti di paglia e d’erba, che Montalbano ha odiato da sempre ma che adesso ha bisogno di risentire, di rivedere, “come lo vedeva allora, con gli occhi dell’innocenza”. Dall’autostrada Enna-Catania vedeva “quei monti a distanza” e poteva “respirare quell’aria a distanza”, coi ricordi che risvegliano l’entusiasmo dei “primi anni in polizia”. Il sapore della madeleine s’impasta di polvere e d’erba maligna, il salotto dei Guermantes può essere l’angolo di terrazza da cui si diffonde nell’aria assolata la voce fessa di don Balduccio Sinagra che dalla sedia a rotelle dirige i traffici della sua cosca, oppure la stamberga dove gli si offre nella sua ingenua furbizia la pollaiola che vive col marito paralitico, ai cui bisogni sovviene con la vendita delle uova e del suo corpo, non ancora del tutto disfatto nella sua triste esistenza; ma può anche essere la casa borghese dove un Montalbano compito, sorseggiando la tazzina del caffè offerta dalla signora, raccoglie le confidenze del professore insonne che passeggia lungo il mare e con la testa ai suoi pensieri parascientifici, sa avvertire e riconoscere l’odore della notte.
Quando si contano e si ricontano nelle macabre scoperte dei corpi senza vita e fatti a pezzi dalla feroce macelleria della mafia, ritornano sempre gli stessi trenta denari, come un numero cabalistico, ogni volta quell’infame trenta a cui non può sfuggire niente di ciò che per qualunque motivo si accosti alla cretaia, simbolo del tradimento nelle cui spire è rimasto preso il commissario con tutto il mondo che lo circonda. La domanda è per tutti e per ciascuno: chi ha tradito? E alla domanda ognuno può rispondere “io”. La medesima risposta Montalbano dà a se stesso quando in un momento di debolezza piangendo s’interroga, o meglio si confessa, il commissario è ormai ossessionato dal tradimento. Tutti hanno tradito. E per primo hanno tradito lui, Montalbano, come lui, Montalbano ha tradito ad esempio, forse per la prima volta, una Livia sempre più lontana e diffidente, che in un momento di requie il commissario, in uno di quei suoi viaggi decisi all’improvviso, va a trovare dove sta in Liguria. A Genova, dopo una visita all’acquario, dove si diverte a guardare i pesci, va a pranzo in una di quelle tipiche trattorie genovesi che si aprono come enormi boccaporti di un transatlantico in muratura sul marciapiede del Caricatore. In tale stato d’animo, che è del Cristo tradito e insieme del Giuda traditore sembra impigliato come un ragno nella sua stessa tela; comunque ordina al cameriere pasta col pesto, ma poi non osa chiedere un secondo di pesce dopo aver visto l’acquario con le sue creature libere nell’acqua: ripiega allora su una cotoletta alla milanese che però non possono servirgli, costringendolo a mangiare una sogliola fritta, come avrebbe fatto da Enzo a Vigata, o a casa sua a Marinella dove la paziente Adelina gli prepara alla svelta, tornando affannata dal mercato, triglie di scoglio appena pescate e chissà quale altro cibo miracoloso, purché tradizionale.
Ma i fantasmi del tradimento non abbandonano Montalbano, che nel tradimento si macera lo spirito come un eretico della Controriforma. Crede perfino che Fazio possa averlo tradito, come sicuramente lo tradisce Mimì Augello, sempre più insofferente e ribelle, col quale Montalbano ingaggia un combattimento al buio, iniquo quanto improbabile, e ravvoltola il rivale nel fango, da cui però subito dopo lo netta, così compensandolo della sua amicizia. Il tradimento di Mimì ha una sua causa che sta nel suo stesso temperamento di donnaiolo bugiardo impenitente, ma anche nella partecipazione subdola alla vicenda di una femme de vie, una colombiana a nome Dolores (“ma che dolorosa e dolorosa, quella fa venire l’allegria, che femmina dottore, ci vogliono occhi per guardarla” ha esclamato il mite Catarella quando è entrato ad annunciarne la visita al commissario).
Infine Salvo tradisce la lontana Livia con la spilungona nordica, bionda e trasgressiva, preda ideale per il macho siciliano, ma anche cara amica da cui in altre occasioni è stato aiutato e che fu pure tenuta castamente ospite nel letto suo (e di Livia) quando la bionda Ingrid (è questo il suo nome tipicamente nordico) ebbe una distorsione a un piede accompagnandolo in un’altra indagine non facile. Dolores ha compiuto uno dei peggiori tradimenti, avendo messo il marito, che diceva di amare, nelle mani del macellaio che l’avrebbe ucciso, partecipando lei stessa materialmente allo squartamento dell’uomo, tranquillo capitano di mare, innamoratissimo a sua volta della moglie.
Ma il mistero di tanto sangue e tanta infamia sta proprio in quel luogo detto cretaio, in quel “campo del vasaio” che è la Caina, piuttosto che “il recinto malefico, la giudecca cretosa, un luogo di empia sepoltura per i traditori; è sdrucciolevole e accidentato, traditore esso stesso”, come osserva Salvatore Silvano Nigro nella sua nota finale al romanzo.