INVENTARIO DI RELITTI OVVERO 'GIRGENTI E LE PIETRE DELLA MERAVIGLIA ... CADUTE' di Dante Bernini
Submitted by redazione on Wed, 01/04/2009 - 20:34
Tutti abbiamo a mente, avendole viste al cinema o in televisione, talvolta forse anche nella loro drammatica realtà, scene di terremoti, di sconvolgimenti, di macerie, da cui affiorano frammenti di vita, cenci, frantumi di mobilio, un universo sminuzzato dalla furia della natura, nel quale spesso si aggirano su incerte gambe disgraziati superstiti che cercano, dopo, o con, i corpi esanimi di famigliari, amici o semplici conoscenti, anche qualcosa da recuperare, da salvare dall’oblio finale, un brandello qualunque che possa ancora essere utilizzato, anche solo perché basti a restituire un ricordo, un pegno di affetto, la garanzia di una continuità di esistenza che aiuti a riprendere il percorso interrotto dalla tragedia.
Questo è il significato che assume il grosso volume di Calogero Miccichè intitolato Girgenti / Le pietre della meraviglia…cadute:oltre 500 pagine di grande formato, in cui si raccoglie con pregevole e laborioso metodo d’indagine una messe eccezionale di notizie, documenti editi e inediti, osservazioni, racconti, commenti ai fini del “recupero del centro storico di Agrigento”, la città della Sicilia sud-occidentale che in quello odierno col quale è universalmente nota, mutò nel 1927 l’originario e già ripudiato nome medioevale di Girgenti, che però secondo il proposito dell’attuale governo potrebbe essere ripristinato con singolare nostalgia neo-medievista nonché filo-araba, per il borgo arroccatosi, al disfacimento della civiltà classica, in cima all’”ermo” Colle di Girgenti; e ciò con buona pace degli stessi cittadini, il cui parere non è stato né, con l’aria che tira, sarà richiesto dagli organi di governo in carica. Già per queste caratteristiche il libro può essere degnamente affiancato alle Memorie storiche agrigentine dell’avvocato Giuseppe Picone, stampato in fascicoli separati, come un romanzo di Dumas, nella gloriosa stamperia Montes di Girgenti nel 1866, in piena temperie risorgimentale e nel clima di rivalutazione della storia patria. Nell’odierna ricognizione realizzata dal Micciché, c’è però, con una coscienza ovviamente evoluta, una consapevolezza scaltrita dall’esperienza ormai ultrasecolare e una ricchezza di mezzi consentita dallo sviluppo tecnologico in cui viviamo, dove il documento visivo ha acquisito un ruolo protagonista, che restituisce al riguardante una concretezza di presenza che nessun documento scritto o testimonianza orale sarebbe in grado di fornire: sono oltre 600 fotografie per gran parte a colori, di vario formato, spesso a pagina intera, che offrono un panorama complesso, plasticamente rappresentato, ma purtroppo, piuttosto delle assenze, che delle presenze, le quali ultime in verità, servono più che altro a porre in risalto come un evidenziatore l’entità del danno subito dalla città lungo tutto il decorso della sua storia.
Un eccitante esercizio della memoria, più la collettiva in verità, che l’individuale, imporrebbe una notevole fatica di indagine sui perché, sulle cause dei veri e propri disastri, degli abbandoni, delle rinunce, degli oblii, e sarebbe una vera e propria “Recherche”, ma nell’ambito della realtà storica piuttosto che nel mondo della fantastica ricreazione di un “tempo perduto”, di per sé labile e vano. Di questa situazione, più contraddittoria che ambigua, l’autore vuol fornire una plastica metafora con la grande foto di copertina, in cui si coglie, umanizzata, la vicenda agrigentina come risultato dell’umano agire. L’antico è rappresentato dai pericolanti resti della cortina muraria che cingeva verso mezzogiorno la città medioevale, e ai piedi di una torre che barcolla c’è il piccolo uomo piegato a erodere col piccone la base dell’opera imponente cavando la roccia tufacea che poi andrà sminuzzando per farne i conci coi quali andrà a costruire le piccole case in cui si svolgerà la sua grama esistenza. L’antico muore ma il nuovo per la sua stessa mediocrità non basterà a sostituirlo. L’autore ha fornito la giusta didascalia per la spiegazione della metafora: “ho scelto questa foto perché sintetizza l’idea contenuta nel titolo del libro”.La foto difatti documenta l’evento forse più contraddittorio che la storia della città abbia dovuto registrare nella sua evoluzione dal vecchio al nuovo, dall’antico al moderno, vale a dire la demolizione delle residue strutture medioevali per fare posto alla nuova stazione ferroviaria di Agrigento Centrale datata 1937. Nell’introduzione l’autore stesso commenta: “l’idea del nuovo a tutti i costi domina ancora oggi l’insegnamento, la ricerca e la costruzione della città. E questo per la presunzione epocale di essere fermamente convinti della nostra particolare originalità. Ma, se pensiamo al rapporto che la nostra epoca stabilisce con l’esperienza del passato, non possiamo far altro che meditare sull’idea di Theodor Adorno, il filosofo tra i fondatori della Scuola di Francoforte, quando ci dice che se si soffoca la Storia, in sé e negli altri, è per timore che possa rammentare lo sfacelo della nostra esistenza; sfacelo che consiste, a sua volta, in gran parte, nella rimozione della Storia. “
Il libro di Micciché ha la finalità di scongiurare, se possibile, “lo sfacelo della Storia” e l’intento si può meglio raggiungere dedicando la ricerca alla ricostruzione di quella Storia dalle sue più antiche testimonianze fino alle più recenti, purtroppo negative esperienze. L’indagine fotografica usa il suo occhio penetrante fino alla indiscrezione per snidare impietosamente i più piccoli particolari dell’esistenza della città e dei cittadini che quella città hanno spesso usato a scopo perfino di consumo, di rapina. L’apparato illustrativo è, come si è accennato, immenso: si parte dalla più antica cartografia per giungere fino ai nostri giorni, cioè a un’immagine totalmente inedita, coi “grattacieli” che ingombrano gli orizzonti ammirati da Goethe, levandosi come giganti donchisciotteschi sulle “favelas” dei vecchi quartieri che nemmeno la speculazione edilizia più predatoria e incolta è riuscita, o ha preferito lasciar sopravvivere quale vestigia della cultura del “ghetto”.
E qui il pensiero torna a indugiare sui documenti d’archivio con ogni diligenza trascritti e inseriti nel testo di cui viene a costituire il nerbo, il filone principale dell’informazione storica. Il materiale è sterminato e per la consultazione si rimanda ai vari capitoli in cui si organizza il libro, specialmente al capitolo terzo: “Documenti della Girgenti Borbonica e Savoiarda” , dove sotto il titolo “Istruzioni per la rettificazione del Catasto fondiario di Sicilia” si esamina e descrive la città quartiere per quartiere e isola per isola come risultano dalla sezione intitolata “Spiegazione e commento della pianta e del cartolare borbonico di Girgenti”.
I quartieri sono: Primo quartiere, denominato S.Michele con una Prima (di fatto unica) Sezione, detta di S.Spirito, composta da 29 isolati e da 929 unità edilizie. Il secondo quartiere è quello denominato S.Gerlando, suddiviso in sezioni, la prima detta della Cattedrale composta da 28 isolati e 1039 unità edilizie e una seconda detta di S.Giacomo, composta da 25 isolati e 1035 unità edilizie. Il terzo quartiere detto di Vallicaldi, o altrimenti di S.Pietro, comprende una prima sezione detta di S.Sebastiano, composta da 6 isolati e 261 unità edilizie e una seconda, della Ravanusella, composta da 34 isolati e 880 unità edilizie. Non esiste inspiegabilmente il quarto quartiere, ma ci sono, aldifuori del circuito cittadino, la Borgata del Molo, detto in passato Caricatore di Girgenti e oggi Porto Empedocle con 42 isolati e 708 unità edilizie e infine la Borgata di Montaperto composta da 19 isole e 692 unità edilizie. Le isole che si compongono nel grande reticolo urbano spontaneamente, non obbedendo cioè a una rigoroso piano regolatore, sono una per una descritte con le rispettive emergenze architettoniche, con le quali sono però in qualche caso, con sdegnata ironia, segnalate anche le deficienze degli usuari cioè della cittadinanza.
Un esempio (pag.156), “15^ isola circoscritta dal vicolo Oblati (oggi vicolo Penna), via Oblati, salita Oblati e dalla via Dietro la Chiesa di San Giacomo. / L’isolato composto da 8 unità edilizie, comprendeva un quartino con bottega, sei casaleni appartenenti al barone Carmelo Celauro e un catodio intestato alla Sacra Distribuzione. La presenza di tutti questi casaleni testimonia che il quartiere sia a monte che a valle della chiesa di S.Giacomo, era in quegli anni in parte abbandonato. Oggi, all’interno dell’isolato sorgono un palazzo moderno che si affaccia sulla via Tommaso Gallo Afflitto e un…rudere moderno, ovvero un ricettacolo di sporcizie sulla via Oblati, che perdura da 25 anni nella sua ”carriera” di discarica abusiva”.
Osserviamo in margine il recupero attraverso la lettura dei documenti di certa vecchia nomenclatura dialettale caduta in disuso: il casaleno, è probabilmente da identificare con una proprietà immobiliare, come la “roba” che il vecchio Maràbito della novella pirandelliana “Il vitalizio” possedeva presso la chiesa di S.Croce all’estremità occidentale del sobborgo Ràbato, “casa e stalla insieme, dice Pirandello, col pavimento fatto coi ciottoli del fiume (dove non mancavano), quella vecchia roba cretosa e annerita”, un “casalino” in un fazzoletto di terra coltivata, detto pomposamente “podere”, che il Maràbito curava meticolosamente, e con la terra gli animali di fatica, unica vera ragione di vita per il vecchio contadino; il catodio (oggi detto piuttosto catuso) può corrispondere al “basso” napoletano, termine a sua volta diffuso largamente in tutto il Meridione.
Spigolando con pazienza tra mille e mille notizie, commenti e ricordi dello stesso autore, si può tentare perfino una ricostruzione abbastanza credibile dell’ambiente sociale, dei suoi mutamenti attraverso il tempo, valutando ad esempio la consistenza dei patrimoni delle famiglie abbienti; molte volte s’incontrano i nomi del parentado di Pirandello (i Ricci-Gramitto prevalentemente, famiglia da cui proveniva la madre del commediografo e che ebbe particolare spicco nell’ambiente borghese in epoca risorgimentale), e naturalmente il coerente modificarsi del patrimonio abitativo, dal palazzo aristocratico all’edificio pubblico, fino alle povere dimore riservate alle classi inferiori. Di quel patrimonio molta parte è andata dispersa triturata nella grande macina del tempo, delle mode, delle avide speculazioni, favorite dallo smarrimento del senso di appartenenza ad una comunità coinvolta in un malinconico destino, dove le perdite della città sono perdite per ogni cittadino partecipe di quella comunità, di un popolo cioè nella sua interezza.
L’esposizione storica si arresta in pratica alla situazione della prima metà del XX secolo, quando scatta il fermo-immagine con le rovine della seconda guerra mondiale. Il corpo illustrativo nel libro di Micciché corre invece veloce fino ai nostri giorni, e svela quel rapido degrado in cui la città è precipitata, malgrado o proprio a causa di quel falso prestigio che si pretendeva, e forse ancora si pretende di conseguire con una politica edilizia che ha scompigliato la vecchia trama culturale di una città, che per fortuna non ha perduto tutti i suoi averi a patto che difenda con impegno crescente il patrimonio archeologico e paesaggistico che una sorte finora benigna, ma domani chissà, ha voluto assegnarle.
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