GERLANDO? MEGLIO ETTORE di Gerlando Mangione

Il posto è un piccolo monolocale con annessa cucina a metà della via Comelico, stretta tra via Cadore e Via Friuli ad un passo dalla rigogliosa Piazza Libia. Sull´insegna un nome evocativo di succulente prelibatezze: "Il Dolce Forno". Da poco trasferito, insieme ai colleghi di studio, nella villa che svetta lungo la linea degli anonimi fabbricati di civile abitazione, un villa costruita nella prima decade del `900 che la leggenda del quartiere vuole essere stata abitata da Claretta Petacci, maestoso regalo del Duce alla sua amante, varcai un giorno, nell´inevitabile lento processo di graduale conoscenza di volti e luoghi nuovi (la grande città è in fondo, con i suoi quartieri, un coacervo di piccoli o grandi mondi nuovi da scoprire), la soglia del "Dolce Forno". Unico cliente, in quel momento, la premura e l´attenzione del giovane al di là del bancone furono talmente coinvolgenti quanto la ricchezza, la varietà e quantità di focacce, tranci di pizza e l´aroma che si sprigionava da essi. Ordinai due tranci, sopraffatto dalla fame e disorientato dai variopinti colori dei condimenti, decidendo di soffermarmi a gustare quanto scelto seduto sull´alto sgabello del locale. Pagai ed al ricevimento dello scontrino fiscale fui spinto da un impulso mai prima d´allora assecondato e pertanto ancor di più inspiegabile, leggere con attenzione lo scontrino e la sua intestazione, chiara, netta, scritta in grassetto e a caratteri più visibili: "Il Dolce Forno di Gerlando P.........". Fu una frazione di secondo e la vista del mio nome, indelebile segno, stimmate di una indiscutibile provenienza, scritto su uno scontrino vomitato da un qualsiasi registratore di cassa, di un qualsiasi panificio milanese, sembrò offrirmi un´opportunità di condivisione della solitaria, ma per me orgogliosa, condizione di colui il quale, in terra "continentale", è costretto, a ripetere più volte il proprio nome e a rappresentarne origine, aneddotica e provenienza, per scongiurare storpiature e goffi tentativi di pronuncia ed aprire infine lo spazio comunicativo alla nuova conversazione. Stesi la mano e mi presentai a Gerlando P. Non particolarmente sorpreso dalla mia rivelazione, Gerlando P. mi disse che era nato ad Agrigento e che all´età di 8 anni si era trasferito a Milano con la propria famiglia. Ci trovammo a condividere la consuetudine del ritorno estivo in Sicilia e ci salutammo con un impegno da parte sua, evidentemente stuzzicato dalla mia insistenza, a farmi trovare, per la settimana successiva, le "ammiscate" con broccoli e salsiccia. Puntuale, ritornai sette giorni dopo al "Dolce Forno". Scelsi il momento meno opportuno per ritirare le mie "ammiscate", una fila interminabile di avventori affollava il piccolo monolocale durante la "pausa-pranzo". Riuscii a districarmi in qualche modo e ad occupare, non visto, l´angolo più angusto in attesa del mio turno. Nel confuso vociare di chi mi precedeva solo una parola, anzi solo un nome riuscii nettamente a distinguere: "Ettore". "Ettore, posso avere un trancio di margherita?", "Ettore, adesso tocca a me!", "Ettore la pizza con rucola e funghi è pronta?". Al di là del bancone, Gerlando P. roteava le teglie, balzava da una parte all´altra, rispondendo cortese e premuroso a tutti i suoi impazienti clienti. Ritirai in silenzio le mie "ammiscate" e andai via. Alcuni giorni dopo ripassai e chiesi a Gerlando P. una spiegazione di quel nome, Ettore, così numerose volte pronunciato dai suoi clienti. Gerlando P., visibilmente infastidito dalla mia richiesta, mi spiegò che dal giorno in cui la sua famiglia e lui si erano trasferiti a Milano, iniziarono tutti a chiamarlo Ettore e che da quel momento in poi quello era diventato il suo nome, finendo, questo stesso nome, per soppiantare, nella percezione della propria identità, quello ritenuto, dalla società meneghina, più incompresibile ed in fondo non completamente accettato. Il nome Gerlando, dunque, era stato convintamene e decisamente confinato e riservato alla fredda necessità degli atti burocratici (licenze, carta di identità, autorizzazioni....). Mi venne subito in mente l´esperienza degli emigranti siculo-americani che, sbarcati ad Ellis Island e sottoposti alle procedure di identificazione e ai controlli medici, entravano con un cognome di chiara origine isolana e ne uscivano, a causa di una superficiale ed annoiata trascrizione da parte dei funzionari addetti all´immigrazione, con un altro che, foneticamente assimilabile alla lingua americana, garantisse in qualche modo integrazione e presentabilità. Il tutto, per approdare a Battery Park, nel Nuovo Mondo. Se tuttavia, l´integrazione e la presentabilità, nel caso di Ellis Island, erano stati frutto casuale di una mera disattenzione, nel caso del "Dolce Forno" di Gerlando P. , avevano rappresentato l´agognata realizzazione di una precisa e lucida volontà, quella di far scivolare l´oblio su un nome e sul suo carico di visioni, evocazioni e storie del sud, a torto ritenute imbarazzanti. Tornai diversi mesi più tardi al "Dolce Forno", consumai in silenzio i miei tranci di pizza, finchè un giorno decisi di riguardare lo scontrino fiscale: a caratteri ancora più chiari e distinti vi troneggiava la seguente intestazione: "Il Dolce Forno di Palmisano G. ". Pagai silenziosamente ed altrettanto sommessamente mi allontanai..... 
 

 
 
 
 

 

 
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