AGRIGENTINI, POVERI MA FELICI?
Girgenti 24 aprile 1787. “ Mai in tutta la vita ci fu dato godere una così splendida visione di primavera” J.W.GOETHE “Viaggio in Italia”
Ne hanno parlato tutti i giornali: è passato un mese dalla pubblicazione della ricerca de “il sole24ORE” sulla qualità della vita nelle province italiane. E in questi trenta giorni non ho perso nessun numero di quel quotidiano. Ero sicuro che ci sarebbe tornato. Ero certo che la notizia fosse quella ancora non data. Eppure non l'ho ancora letta. Che Agrigento stazionasse agli ultimi posti nella classifica della qualità della vita, in fondo non mi sembrava una grande notizia: la coda della classifica era stata un suo triste appannaggio da sempre, da quando, almeno, era stata avviata tale ricerca. Il dato curioso era un altro: era il cosiddetto 'Indice di Felicità Personale', lo annotava a margine, stupefatta, la stessa ricerca, gli Agrigentini si dichiaravano tanto felici da occupare l'ottavo posto in classifica sulle cento e più province. Si dirà: inconsapevolezza delle proprie condizioni. No: se si raffrontano i posizionamenti oggettivi nelle macro aree che determinano la qualità del vivere con quelli relativi alla percezione di esse, se ne ricava un sostanziale combaciamento: Tenore di Vita, oggettivo 90, percepito 106; Affari e Lavoro 100, percepito 96; Servizi, Ambiente e Salute 99, percepito 102; popolazione 103, percepito 93: insomma, salvo pochissimi scarti, gli Agrigentini sono ben consapevoli delle loro condizioni oggettive, consapevoli dei loro limiti strutturali, eppure sprizzano felicità.
Qui si insinua il demone cavilloso e spiazzante del 'genius loci': siamo davanti ad un consolante e rassicurante stereotipo del tipo 'poveri ma felici' oppure ci viene ricordato che siamo nella terra di 'Uno, nessuno, centomila'?
L'imprevista irruzione della felicità personale in un contesto di miseria pubblica segnala il limite strutturale di ricerche sulla 'qualità' del vivere che non possono non avere un che di arbitrario, di infondato dal momento che ricavano i parametri della qualità da un aprioristico modello che viene presupposto come qualitativamente accettato quando invece dovrebbe essere il deposito finale di una ricerca empirica. Ma questo discorso ci porterebbe lontano, ai confini del relativismo antropologico e dei sistemi eudemonici e alla mai risolta questione dei rapporti tra modernità e arretratezza. E a chi, dal nord, sull'altare delle 'magnifiche sorti e progressive' volesse puramente e semplicenmente trasferire nell'arretratezza i parametri della modernità, vogliamo ricordare che nel sud c'è un patrimonio relazionale, familiare, di vicolo e di paese, che sfugge alla rilevazioni della qualità ma che contribuisce fortemente a determinare il grado di soddisfazione della propria esistenza. Un patrimonio che (nella sua versione di 'familismo amorale') viene da sempre sfrontatamente utilizzato da Cosa Nostra e dal clientelismo politico, ma mai, nella versione di autentica cultura meridiana ( vedi Cassano e company), valorizzata dai progetti di ridefinizione della modernità. E a chi, dal sud, si autopropone nella sua identità immutabile e folklorica, ricordiamo che il riporre la felicità in un esclusivo ambito privato può invece costituire la conferma estrema della negatività del contesto sociale in quanto smarrimento di autoconsapevolezza, del ruolo e del posto da occupare nel mondo globalizzato e competitivo: insomma si è tanto in basso nella qualità della vita e da così tanto tempo da non avere più neanche l'idea di affidare anche ad essa la speranza di felicità.