DE TE FABULA NARRATUR*
Sin dal primo giorno del proprio mandato, Barack Obama ha fatto capire qual è la sua idea di emergenza, e cosa significa nella storia delle democrazie liberali. I dizionari spiegano che l’emergenza è una situazione di pericolo o crisi inaspettata, nella quale le pubbliche autorità si mettono in allarme e assumono poteri speciali. Per Carl Schmitt, che negli Anni 20 e 30 teorizzò la superiorità del potere assoluto sullo stato di diritto, l’eccezione è «più interessante» del «caso normale»: quest’ultimo è fatto di procedure ripetitive, che intralciano la capacità decisionale del vero sovrano. La vera autorità «non ha bisogno della legge per creare legge». Essa crea proprie leggi, piegando procedure e costituzioni al proprio buon volere e al mondo nuovo che promette: le sue leggi, di volta in volta ad personam o ad hoc, instaurano lo stato di pericolo e sospendono routine normative ritenute inani. Al posto della fiducia si inocula nel popolo la paura. Nel continente della libertà si dilata lo spazio della necessità. Riprendendo Hobbes, Schmitt conclude che non la verità «fa la legge» ma l’autorità, rivelata e temprata dalla situazione limite (Grenzfall).
Precisamente questo è accaduto nei due mandati dell’amministrazione Bush, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001: la Costituzione è stata sottomessa alle esigenze del principe e all’accentramento del potere presidenziale. A dominare non era più l’imperio della legge (la rule of law) ma il sovrano e la contingente ideologia da esso incarnata. La prigione extraterritoriale di Guantanamo, dove non valgono le leggi costituzionali americane; le commissioni militari che senza garanzie giuridiche esaminano i detenuti; l’uso della tortura; l’abolizione dell’habeas corpus, ovvero del diritto (risalente al 1679) che ciascuno ha di conoscere i motivi della propria detenzione: queste le misure che hanno trasformato centinaia di prigionieri in animali cui è stato sequestrato il corpo, come direbbe Foucault.
Obama ha messo fine a tali arbitrii, che aboliscono l’equilibrio tra i poteri voluto dal pensiero liberale. Ed è importante che sia il suo primo gesto, perché qui è la vera urgenza dei giorni nostri, non solo negli Stati Uniti. La vera emergenza è l’idea stessa di un’emergenza continua, abbinata alla promessa di rottura col passato e al proliferare di leggi ad hoc: l’esempio statunitense ha rafforzato in molte democrazie questa mistificazione emergenziale-rivoluzionaria. È stata una loro regressione infantile, fondata sulla convinzione che la democrazia non avesse una storia lunga, fatta di norme e routine, ma fosse una pagina tutta bianca da colorare a piacimento. Il principe-bambino fa quel che crede, immaginandosi onnipotente. Ritorna allo stato precedente la separazione dei poteri di Montesquieu, quando il potere che s’espande abusivamente non è ancora fermato da altri poteri. In un passaggio chiave del discorso inaugurale, il 20 gennaio, Obama ha citato la prima lettera di Paolo ai Corinzi (13,11): «Rimaniamo una nazione giovane, ma come nelle parole della Scrittura, è venuto il tempo di metter da parte le cose infantili».
«Divenir uomo» consiste nel ritorno alla norma, nella scoperta del proprio limite, nell’abbandono della speciale arroganza unita a ignoranza che caratterizza l’infanzia. Non sarà facile, perché l’America resta ufficialmente in stato di guerra con il terrorismo, nonostante la volontà presidenziale di «tendere la mano a chi vuol aprire il proprio pugno». Anche se la guerra continua tuttavia, occorre restar fedeli alla Costituzione e alla separazione dei poteri. Occorre far capire al mondo che i prigionieri di Guantanamo saranno correttamente giudicati, che l’America non torturerà né a Guantanamo né in prigioni segrete sparse nel mondo. L’inverno dell’avversità cui ha accennato Obama esige la restaurazione della rule of law: «Noi respingiamo come falsa la scelta fra la nostra sicurezza e i nostri ideali».
È una presa di posizione al tempo stesso morale e pratica. La tortura di prigionieri privati di habeas corpus non ha facilitato la guerra al terrorismo, ma l’ha complicata e invalidata. I video di Abu Ghraib sono usati da Al Qaeda come efficacissimo mezzo di reclutamento. Neppure in stato d’estremo pericolo (la bomba a orologeria che può esser sventata ricorrendo alla tortura) le leggi d’eccezione sono utili. In Italia se ne discusse nell’estate 2006: ci furono intellettuali e editorialisti democratici che aprirono alla tortura, pensando che l’ineluttabile spirito dei tempi fosse ormai questo.
Sono tanti gli studi che sostengono che la tortura, oltre a essere immorale in ogni circostanza, è probabilmente inservibile. Essa rende più difficile la cooperazione internazionale, perché le confessioni estorte sono inutilizzabili da inquirenti e tribunali. Il giudice spagnolo Garzón è di quest’opinione, e ha inoltre accusato le autorità Usa di tener nascosti in prigioni segrete testimoni essenziali per chiarire l’attentato del 2004 a Madrid. Peter Clarke, ex capo della polizia antiterrorista inglese, ha detto all’Economist nel luglio scorso: «Ogni evidenza raccolta a Guantanamo è inammissibile». Un uomo umiliato, cui si infligge l’annegamento simulato (waterboarding), confessa ogni sorta di bugia. David Danzig in un articolo su Huffington Post del 22 gennaio ricorda come i maggiori successi siano stati raggiunti da un’«arte dell’interrogatorio» che rifiuta la violenza, e preferisce l’astuto colloquio con pentiti e perfino con combattenti: Saddam Hussein e al-Zarqawi, ex capo di Al Qaeda in Iraq, furono scovati così.
Non sarà semplice smantellare le tante leggi ad hoc create nell’emergenza terrorismo, in America ed Europa. Perché sono leggi che lavorano nel buio, aggirando perfino sentenze delle Corti Supreme come quella statunitense, che ha restituito ai prigionieri l’habeas corpus. Non è semplice perché ancora deve esser affrontata la questione fondamentale: è veramente guerra quella che viviamo? e se lo è come chiamare l’avversario? E se non è guerra cos’è? Nemmeno Obama ha la risposta, che pure gli toccherà dare senza attendere altri sette anni. E ancor meno sanno rispondere i governi europei, che adottano leggi emergenziali d’ogni tipo (sul terrorismo e sull’immigrazione) evitando furbescamente di dichiararsi nazioni in guerra. Siamo lontani, qui, dalle autocritiche americane. Tony Blair, che ha mimato ogni mossa e ogni disastro di Bush, ancora non è chiamato alla resa dei conti.
Ma qualcosa è cominciato, con una prontezza che fa onore a Obama. Qualcosa comincia a esser detto: che essere uomini adulti in democrazia vuol dire rispettare leggi antiche, messe alla prova in situazioni ben più difficili di quella presente. Che il sovrano capriccioso e falsamente decisionista ha un comportamento immaturo. Che le tradizioni giuridiche contano: quelle racchiuse nelle costituzioni e quelle iscritte in leggi internazionali che Bush ha sprezzato, come la convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri. L’ansia di innovare a tutti i costi può esser letale, in democrazia. Il mito della «rottura» si sfalda. «Questo è il prezzo e la promessa della cittadinanza», ha detto Obama ai connazionali. Non a caso martedì li ha apostrofati in maniera inedita: invece di My fellow Americans, li ha chiamati My fellow citizens.
La questione morale coincide con il ritorno alla cultura della legalità, in America come in Europa. È la più grande necessità del momento: non si restaurerà una duratura fiducia tra governati e governanti, senza riconversione all’imperio della legge. Non si risaneranno l’economia, la politica, il clima. L’alternativa è chiudersi in belle bolle e ignorare i fatti: anche la bolla è qualcosa di molto infantile, che brilla di tanti colori fino a quando (inaspettatamente per i bambini) esplode.
*editoriale di Barbara Spinelli pubblicato su La Stampa del 25 gennaio 2009 col titolo 'Obama e la maestà della legge'