IL MINISTRO ALFANO E IL PARADOSSO DEL MAFIOSO DEVOTO di Giovanni di Girgenti

“ (In Sicilia) la voglia di liberarci dalla mafia non può avvalersi solo degli strumenti giudiziari: ha bisogno anche di una limpida coscienza culturale della nostra storia e della nostra memoria”. E' il pensiero con cui il ministro Angelino Alfano chiude una lettera inviata a Repubblica ( il 24 novembre) nella quale esprime amarezza e inquietudine per il ritratto che Paolo Berizzi ha disegnato del boss Bernardo Provenzano visto nella sua cella di isolamento nel carcere di Novara tra santini e preghiere, immaginette della Madonna e di Padre Pio, interamente assorbito dall'idea che la fede è tutto. Conosco Angelino Alfano, so come la fede cattolica sia fondativa della sua formazione e del suo orizzonte politico e capisco come possa turbarsi, più di quanto non dica, nel vedere accostati i simboli della sua fede a quello spietato mandante di stragi ed esecutore di svariati omicidi.

Ma proprio perché la lotta alla mafia ha bisogno di memoria e di coscienze culturali limpide non si può rimuovere un fatto notoriamente acclarato: il rapporto tra i mafiosi e la chiesa cattolica è stato sempre molto stretto.
Qui non mi riferisco alle scelte e ai giudizi della chiesa siciliana, dei suoi vescovi e dei suoi sacerdoti o monaci verso la mafia o singoli mafiosi che come è noto hanno seguito sentieri tortuosi ( dalla negazione della stessa esistenza della mafia del cardinale Ruffini all'anatema di papa Woytyla nella valle dei templi di Agrigento, dai monaci di Mazzarino al sacrificio di padre Puglisi), no, non è questo il punto: qui mi interessa capire come è possibile che tanti mafiosi siano cattolici devoti ( nel pieno esercizio del loro potere criminale), frequentatori assidui di parrocchie e di riti religiosi e non abbiamo mai avvertito l'insanabile contrasto tra la religione dell'amore e del perdono e la loro pratica spietata di dominio e sopraffazione.
Tutto sarebbe chiaro e coerente se ci trovassimo davanti ad una versione agropastorale o arcaicizzante del fenomeno, tutto postmoderno e raffinatissimo, degli atei devoti, di quel particolare modo di vivere la religione senza il dono della fede, ma con la lucida agnizione del ruolo storico di essa ai fini della salvaguardia di certi valori, ma non ci pare che Provenzano e prima di lui don Calò Vizzini e tanti picciotti devoti possano nutrire ambizioni valoriali; ci toglierebbe pure dagli impicci l'ipotesi che i mafiosi devoti in realtà possano recitare quando si propongono come uomini di fede, ma a parte qualche singolo caso, in generale i mafiosi si dichiarano e sono nella loro coscienza convintamente uomini di fede.
Ci sarebbe così un modo di vivere il cattolicesimo che non sembra creare particolari casi di coscienza ad assassini spietati e impenitenti. Un paradosso.
Questo mi sembra il problema non il fatto che un giornalista ci abbia informato dello stile di vita carceraria di Provenzano. E mi piacerebbe che uomini di fede come Alfano ci aiutassero a capire come possa essere successo e come possa continuare a succedere tutto questo.
E' nota l'affermazione di Hesse secondo la quale i mafiosi non si riconoscono come tali e non solo ai fini giudiziari: in questo caso il mancato avvertimento del paradosso, tra la fede e le azioni, andrebbe ad iscriversi solamente nel conto della coscienza deformata dei mafiosi.
Ma c'è anche un altro possibile aspetto del problema che però chiama in causa il modo stesso di proporre e praticare la fede in Sicilia: una fede basata più sui sacramenti che sui comandamenti, sui riti piuttosto che sull'etica, sul familismo piuttosto che sulla socialità: un tal modo, storicamente dominante, perché mai dovrebbe aiutare a capire che non va toccato Abele e perdonato Caino? Se la fede si concentra nel personalissimo rapporto tra i miei desideri, i miei bisogni e la potenza divina, senza la mediazione dei miei simili, se non nei riti sacramentali, tutto è consentito tra gli uomini e con gli uomini. Del resto ' a gente è tinta': non ce lo ripetiamo sempre?
 
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