EUROPA RAPITA DAL TORO di Sandra Scicolone
Tirava scirocco, da togliere il respiro. Roba da non credersi per quella parte dell’anno e della stagione. Rasoiate di caldo invadevano la città e creavano una sequenza di volti coloriti, sudati, increduli. E c’era un sole magnifico. Che poi facevano una gran rabbia quel sole e quel caldo perché esistevano indipendentemente dal suo umore. Cosa c’era di più irritante per una depressa storica che star male al cospetto di una bella giornata? Sarebbe stata giusta una solidarietà meteorologica, segno di equità invocare un cielo plumbeo rispettoso del suo umore. Avevano fatto l’amore quella mattina, un po’ frettolosamente ma lei ci aveva messo tutta se stessa, come al solito. Lo aveva abbracciato e scongiurato di venirle dentro per sentirlo ancora più suo, o forse per sentirlo suo. Ma appena un’ora per vedersi dopo un lungo periodo di lontananza l’aveva lasciata disorientata. - Quality time, tesoro – le ripeteva tra uno squillo al cellulare e il suo rapido rivestirsi per andare al lavoro – E’ quella la cosa più importante. Stare bene anche per poco è già un risultato. E lei mandava giù perché forse era vero o semplicemente perché non c’erano altre soluzioni a quella storia rubata. E’ che ci teneva troppo, credeva di amarlo o, quando era più lucida, la chiamava ossessione quella roba lì. Lo vide lasciare l’appartamento dalla sua stanza. Non lo aveva accompagnato alla porta, era rimasta sul letto a sprimacciare i cuscini, con uno sguardo vitreo. Forse poteva approfittarne e dormire, recuperando il sonno perso nelle notti precedenti appresso al lavoro. Chiuse allora gli occhi ma sfiduciata. Farlo in realtà significava altro: buttarsi nei pensieri che le portavano ansia, un accenno di tachicardia e due sacchi lacrimali incontinenti. Meglio alzarsi. Indossò la metà degli abiti usuali per via del caldo e scese in strada per portare a termine il programma di quella mattina di ferie. Per averla aveva mercanteggiato col suo capo un doppio impegno per il giorno successivo e ora l’avrebbe usata adeguatamente. Ma non pensava già così presto. Prima fitta. L’idea era quella di andare al museo archeologico che non visitava da alcuni anni anche se era così vicino a casa sua. Ma non se ne faceva una colpa, le cose vanno così, si dice che al più presto si farà x e poi si finisce per fare y. E’ normale, da persone normali. Lei diceva che questo museo le piaceva molto, credeva di ricordarne bene molte delle opere che ospitava e aveva rimandato sempre il proposito di rivederlo. Quella mattina però la visita era stata programmata scientificamente, anche se non così presto… Centro storico e bei palazzi antichi. Il museo stava in uno di questi. Entrata si accorse subito di essere uno dei pochissimi visitatori di quella giornata. Poteva girare per le sale alla muta presenza dei custodi, sguardi curiosi e pance prominenti, seduti agli angoli delle stanze. La bellezza di quell’allestimento stava nel suo essere superato. Le vetrine e la disposizione delle opere ricordavano impostazioni museali datate. Né luci alogene né atmosfere ad effetto, solo credenze di legno con ripiani in vetro impolverati a sostenere teorie di manufatti di età greca e romana. Sceglieva di sostare solo se attratta da qualcosa, non stava lì a leggere tutte le didascalie. Un bel vaso, un’arma di bronzo, una copia romana di una statua greca. Le pareti bianche e i tetti alti bilanciavano con la loro frescura l’impertinenza dello scirocco e lei si sentiva già meglio, anzi, quei brividi che ogni tanto la percorrevano nel passaggio da una sala deserta all’altra la riconciliavano col suo cattivo umore. Perché la sua storia era lì nei suoi pensieri, non c’era da mentirsi, e solo qualcosa di veramente particolare le permetteva rapide boccate d’ossigeno dall’assedio mentale che stava subendo. Non che lui le creasse dei problemi, sembrava sentimento vero, a parte questa sporadicità e velocità degli incontri (due lavori diversi i loro, con ritmi diversi), ma aveva finito per chiedersi se in realtà fosse lei a non creargli problemi. Una compagna molto comoda si sarebbe autodefinita, perfetta per discrezione, cuore, corpo e mente. Ma c’era ancora da vedere in quel museo. La sala delle metope dei templi di Selinunte era come se la ricordava, grande e austera. Il solito custode, solito perché tra di loro i custodi sono indistinguibili, come se l’aspetto anonimo facesse parte del curriculum, qualità fisica indispensabile per non distogliere il visitatore dalla visione delle opere, seduto in un angolo leggeva il Giornale di Sicilia e ogni tanto la guardava. Si sedette al centro di quella stanza in posizione da osservazione sistematica. Eracle e i Cercopi, Perseo che sgozza la Medusa. Vera potenza di immagini, robustezza vivace – pensava - il gusto per l’azione drammatica in Sicilia era già lì nel VI sec. a. C., insieme ad un realismo comico e tragico. Brio e violenza, bell’accoppiata. Lasciò lo sguardo più a lungo sulla metopa che rappresentava il ratto di Europa. Il mito era famoso, la storia di una principessa che Zeus in perenne stato di eccitazione aveva concupito sotto forma di toro e portato via nel continente che da lei prese il nome. La scena le fece ricordare un componimento del Bandello, imparato al liceo ai tempi in cui faceva esercizi di memoria:
Non t’accostar Europa al vago Bue,
che va scherzando in questo verde piano,
non ti fidar, che tanto paia umano,
che più superbo visto mai non fue.
Trasformato s’è Giove, e l’arti sue
adopra per rapirti umìle e piano:
or scherza, or salta, or fugge ed or la mano
ti bacia, ed or sospeso sta tra due.
Sciocca che fai? Dove vuoi porre il piede?
Ahi scendi, Europa, scendi torna torna,
che lascivo si volge all’ampio mare.
Ella stringendo le novelle corna
il mar turbato d’ogni intorno vede,
né più quel lito a’ suoi begli occhi appare.
Allora, su quel sedile, avvertì tutta la stanchezza della mattina. Non voleva alzarsi più, poteva guardare quelle metope per tutto il tempo che le restava, col custode a fissarla ora più frequentemente. Sì perché lei ora piangeva, in silenzio, lacrime implacabili.