VIA IMERA E DINTORNI di Sandra Scicolone

 

La via di Agrigento in cui ho abitato per diverso tempo porta un nome fiero, “Imera”, che, per chi non lo ricordasse, rievoca un sito archeologico importante del palermitano dove l’esercito dei miei avi greci, guidati da Terone il tiranno, sconfisse sonoramente i Cartaginesi nel 480 a.C. Siccome agli antichi piaceva scoprire nelle date originali e significativi parallelismi, tutti i Greci del tempo si compiacevano del fatto che la battaglia di Imera si fosse verificata nello stesso anno in cui gli Ateniesi cacciavano i Persiani a Salamina, imbottigliandone le navi in una memorabile naumachia. Insomma, con due vittorie, una a destra e l’altra a sinistra, una ad est e una ad ovest, il genio ellenico sconfiggeva il nemico barbaro.

Qualche anno fa un curioso personaggio della politica locale, un socialista craxiano, capì che l’illustre cittadinanza meritava un segno che le ricordasse l’importanza del toponimo e così, in un punto assai oscuro ed infelice della via, fa oggi bella mostra di sé una lapide, di quelle imponenti, serie, di luminoso marmo bianco, che recita: “Ai caduti nella battaglia di Imera”. Appariscente, commovente, ma è scritta, filologicamente, in greco antico, ergo il novanta per cento dei cittadini non la capisce, ammesso che nel dieci restante siano compresi i docenti di greco e quelli che il liceo classico lo hanno fatto proprio bene. Ma ammiriamo e ringraziamo lo stesso quel politicante dalla singolare somiglianza con Lothar, il fedele servitore di Mandrake.

Oggi Via Imera teme però di perdere il suo illustre nome a vantaggio del più realistico China Street o China Avenue vista la portentosa densità di negozi di abbigliamento e chincaglieria dell’estremo Oriente che la contraddistingue da alcuni anni. E’ stato un rapido mutamento, il popolamento cinese è avvenuto dapprima a macchia di leopardo, come i fenomeni linguistici, poi è passato ad un più chiaro manto uniforme, interrotto qua e là da qualche pezzatura di attività commerciale italiana. Mi aspetto da un momento all’altro la marcatura del territorio, non necessariamente con stile faunistico. Ma è la globalizzazione, il mercato mondiale, la Cina che avanza ecc. ecc.

Via Imera è larga ma non troppo, è lunga ma la si può percorrere senza grande fatica, è pianeggiante ma con troppi marciapiedi a pezzi. E’ parte della città creatasi dopo gli anni ’50, un tempo avventurosa strada che portava fuori, in direzione Palermo, via pericolosa, di briganti o giù di lì. Oggi è tutta un susseguirsi di palazzi, palazzoni, nodo stradale fondamentale per accedere al centro, oggetto di mille congetture sullo scorrimento del traffico, coacervo di altissime quantità di polveri sottili inquinanti in sospensione. Ma alle sue spalle c’è una delle propaggini del centro storico, cui si collega per mezzo di scalinate distribuite lungo il percorso. Una di queste l’ho scoperta solo di recente, in seguito al successo riscosso da una parrucchiera presso i miei capelli. E’ nei pressi dell’edificio fascista della Posta, bella tholos con tanto di statuone commemorative. E’ una scaletta comoda, un po’ stretta ma che mi porta subito dalla pettinatrice. Si chiama “Discesa Anna Frank”. La targa è apposta però all’inizio della salita e già questo mi insospettisce. Siccome c’ho la razionalità a mille, anche se solo nei momenti sbagliati, per burla voglio accertarmi che al termine della scala, cioè all’inizio della discesa, ci sia per legge di compensazione la targa “Salita Anna Frank”. Percorro la rampa, un po’ di fiatone: non c’è. Che occasione persa per gli amministratori di questa città! Allora comincio a immaginare la scena del crimine: il solerte impiegato comunale dell’Ufficio Toponomastica che si ingegna con malizia sulla disposizione della targa. Parte da Via Gioeni, in alto, scende lentamente le scale, si ferma per ammirare il retro della mussoliniana posta centrale, accende magari una sigaretta, incontra un paio di amici e poi, alla fine, quando è arrivato nella parte bassa della città, sboccando su Via Imera, decide: ho fatto la discesa, quindi qui e ora, hic et nunc, affiggerò la targa. Avrà riso pensando agli sventurati che quella rampa l’avrebbero percorsa in salita, inveendo contro l’amara realtà dello sforzo fisico, o ha filantropicamente pensato di alleviare la salita con l’illusione della discesa? Ha giocato sull’avvertimento e sul sentimento del contrario? O ha colto, sulla scia di Einstein, l’applicazione della relatività alla toponomastica? Vorrei comunque conoscere il nome di questo impiegato del Comune, e stringergli grata la mano.

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