O MIO BUON SAMARITANO... di Giandomenico Vivacqua

Caro Maestro, quando, quindici anni fa, ti scelsi come patrono per apprendere i rudimenti di un mestiere scabroso e divorante, quale quello che tu onori ogni giorno con la tua regolare caparbietà e io ogni giorno tradisco con ogni sorta di impensabili divagazioni, mi è stato subito chiaro che la tua sarebbe stata una pedagogia silenziosa, omissiva, reticente. Nemmeno l'esempio muto ed eloquente c'era da aspettarsi, poiché l'ostentazione dell'esempio ti sarebbe parsa uno scandaloso cedimento a quella vanità donnesca di cui non c'è traccia alcuna nella tua asciuttissima biografia. La sola tua presenza corporale, peraltro ridotta all'osso di un corpo snello dentro un abito sobrio, intenta e silenziosa alla scrivania che fu di tuo padre, ogni giorno, ogni mese, ogni anno, è stata la lezione unica e indimenticabile che mi hai impartito. Non ha fruttificato, per me, nell'aspro terreno del mio spirito, che tenta e ritenta esperienze diverse con alterne fortune. Ma io ti so lì, solido e solito, allo scagno avito, e quando gli angosciosi garbugli della mia vita sembrano vincermi, da te vengo in cerca di rimedio, e lo trovo sovente. Oggi ti leggo, samaritano esemplare, e non provo meraviglia. Ti ho capito per tempo e il tempo mi ha dato ragione. Ma ecco una cosa che forse stupirà persino te, infinito galantuomo, pietoso viandante: confuso tra gli erranti che hai opportunamente soccorso, lacero, spaventato, esausto come tutti gli altri, c'era niente meno che il figlio dell'uomo, il Re dei Re. Quale sommo privilegio ti ha guadagnato la tua illegale onestà! Un abbraccio, come sempre esagerato e fanciullo. Tuo devoto, G.
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