SPECIALE IMMIGRAZIONE. SUL MURO di Davide Natale
Alle otto del mattino il telefono cominciò ad urlare, martellante, insistente. Maledizione, pensavo, maledizione. È domenica, ho soltanto voglia di dormire, riposare, poltrire, fare nulla. Domenica di ozio e pantofole (che schifo che mi faccio, a volte!) mentre fuori, intorno, non so quale festa stava per avere inizio.
Rannicchiato sul mio letto, a due passi da piazza Pirandello, ascoltavo i tamburi, le urla dei bambini, gli altoparlanti, le bande musicali, mamme a rincorrere figli, rumori di tacchi di donna che calpestano scale.
Ore 12,00
Sul muro, appiccicato obliquo rispetto alla sua normale, un foglio di carta ammoniva: “Non posare, per piacere, i tuoi piedi sul mio viso, non farmi diventare nero. Non vedi che sono appena dipinto?”. Un appello alle gentilezza dei viandanti, degli avventori di questo angolo di Africa nel centro di Agrigento. Piazza Ravanusella, un call center molto frequentato, posto a ridosso dell’infinito numero di gradini che conduce alla via Atenea.
Ogni qual volta vado a trovare Camarà, l’amico gestore gentilissimo di questo nodo di voci, torre di babele, tra mondi lontani, provo una gioia sincera, vera, che ha il suo inizio, la sua icona, in quella frase tanto simpatica quanto necessaria. Quel monito scritto, quella richiesta di rispetto al candore della pittura fresca e bianca. La firma: Il muro.
È un muro gentile, cortese, che senza alcuna forzatura rispetto alla sua natura strutturale, diciamo professionale, chiede cortesia, gentilezza, desidera non essere maltrattato, imbrattato dalle impronte degli umani che, una volta poggiate le spalle, distrattamente o volontariamente, vi poggiano sopra anche i piedi.
Camarà, cortesia d’Africa, pingue e simpatico, trascorre l’intera giornata al lavoro, e sino a tarda sera, è pronto a smistare telefonate, scambiare monetine, elargire sorrisi sinceri “la linea è libera puoi telefonare…, ma come è possibile che sbaglia sempre numero, questo? Ciao beddu miu…”, e, a volte, incomprensibili frasi che ascolto per quella splendida sonorità che possiede la sua lingua e che mi piace così tanto, pur non capendone, se non dopo la traduzione che Camarà sempre mi concede per non escludermi, il senso, il significato.
Ore 14,00. Pranzo domenicale a casa paterna
Camarà è imbarazzato, incredulo ma felice. Ho imparato a conoscerlo, ad apprezzarlo, a volergli bene. Lungo la strada che ci conduce verso casa dei miei genitori avverto, nonostante la temperatura non superi i 20 gradi, una sofferenza sulla sua fronte, sudore che cola e che lucida. Sulle gambe di Camarà un vassoio coperto con carta argentata e un odore, forte ed intenso, di pesce appena cucinato, completa l’immagine. Camarà ha accettato l’invito a pranzo ad una sola condizione: ho accolto lo scambio. Ha telefonato, così, ad una sua amica, ed ha fatto preparare un piatto tipico del Senegal, a base di riso e pesce e altre spezie dall’odore dolciastro e molto forte.
Durante il pranzo si è discusso di Maometto, Gesù, Berlusconi, il Milan ed il sindaco Zambuto. Tutti, a vario titolo, impressi nella memoria dell’amico. Pasta al forno della mamma e riso con il pesce di Camarà. Siamo ritornati a piazza Ravanusella subito dopo pranzo, mentre quel luogo, lentamente, stava cominciando a ripopolarsi, colmarsi di senegalesi e sudanesi, etiopi e eritrei, tutti a ritorno dai mercati, dalle piazze affollate, dai ritrovi domenicali, con le loro auto scassate, fumose, ricolme di collanine e cinture, abiti e sandali tutti, rigorosamente, falsi. Acquistai qualcosa, non ricordo, ma ricordo bene cosa, invece, ognuno di loro volle regalarmi. Ed io a negarmi, a proteggermi dall’imbarazzo che provavo per tanta gentilezza e riconoscimento. Ebbi la peggio e dovetti accettare.
È qui, in questo angolo di città siciliana, ai margini del centro storico, che si è trasferita una parte dell’Africa. Da Dakar ad Agrigento, solo andata per necessità su di un barcone stracolmo, onde che annegano, buio e freddo sotto le stelle mediterranee, mare che spaventa, occidente che attrae con le sue televisioni, con le sue macchine, le sue ville, i suoi palazzi, le sue donne svestite, corpi come sirene, benessere e libertà. Occidente che poi ti ignora, ti sfrutta, ti maltratta. Ti costringe, a volte, alla solitudine e alla disperazione.
Sera, domenica. Quasi lunedì.
A breve le elezioni nazionali, le dette politiche, cambieranno l’assetto della Nazione, dello Stato Italiano. La rassegna stampa che la televisione mi rimanda non lascia dubbi. La campagna elettorale del centro destra avrà un perno fondante: la sicurezza e l’immigrazione.
Io sto rileggendo un sms inviatomi da Camarà ad ora di cena, poche parole a formare un romanzo contemporaneo, un romanzo mai scritto, poetico, profondo, di popoli lontani e di sofferenza, di povertà e orgoglio, di dignità, amicizia e partenze, rispetto per il prossimo e gentilezza, di caldo sole africano e barche sul mare, la luna e le stelle d’africa mentre un viso pallido, bianco, umido, brutta faccia e voce stridula, dalla tv, mi inorridisce. È il solito politicante italiano, di turno, che sparge paura e terrore, odio… “l’uomo nero, l’immigrato, il musulmano, l’altro, il diverso, il venditore abusivo, il ladro di appartamenti e di lavoro ai nostri figli, l’Italia è nostra, degli italiani, non bisogna accettare questo stato di cose, è necessario portare la questione in Europa, le nostre donne, la nostra identità, la religione, le case le cose gli uomini che rubano che uccidono la lingua non si possono permettere città insicure Roma Milano Palermo e poi i barconi arrestiamo usiamo la forza ma avete visto che cosa hanno fatto ed ancora ci sono i bambini ai semafori ed ancora le donne che rubano i bambini ed…”.
Porto al collo la collanina e al dito l’anello che mi sono stati regalati nel pomeriggio. E prendo sonno.