SPECIALE IMMIGRAZIONE. KADOKO' di Pietro Baiamonte
Submitted by Suddovest on Mon, 11/08/2008 - 16:25
È un bellissimo pomeriggio, questo diciannove luglio, qui, ad Agrigento: spira un allegro ponente, che pulisce il cielo ed esalta la luce del sole. Stiamo in una polla d’ombra, sotto i pini ed i ficus, seduti ad un tavolino del bar, a sorseggiare una birra o una granita al limone. Tano è da poco giunto, con la pelle cotta dal sole ed un sorriso aperto, che fa il paio con la luce che brilla intorno all’ombra. Fra un po’ arriverà anche Davide. Francis indossa una maglietta arancione, ed un cappellino con visiera che rende più grandi i suoi occhi bruni.
Siamo qui per organizzare il numero speciale, che verrà pubblicato dalle testate di Suddovest e Medeu, unite dallo stesso bisogno di indagare più approfonditamente il fenomeno dell’immigrazione, sotto diversi aspetti, e dell’integrazione nel tessuto sociale ospitante dei tanti immigrati che si riversano sulle nostre coste.
Francis ha un irrefrenabile desiderio di raccontare, più che di raccontarsi: è tutto nei suoi occhi, dentro la sua memoria, il peso delle immagini che gli hanno guastato l’anima, e che ha cercato di annientare prima che lo annientassero. Ma Francis sa che la memoria ha in sé l’urgente bisogno di dispiegare i suoi contenuti, di offrirli come dono prezioso a chi è disposto ad ascoltare, e che altro, lui qui, non potrebbe essere senza il suo peso.
Francis, in più, porta il peso di due vite, separate dal valico di un funerale che fu il suo. Il prima era la moglie, il viaggio settimanale da Kindu, capoluogo della provincia di Maniema, nella zona orientale della Repubblica Democratica del Congo, a Goma, capoluogo della provincia di Kivu nord, ai confini con il Rwanda, dove insegnava in una scuola elementare.
Venticinque chilometri immersi in un paesaggio inciso nel suo sangue, e che so essere materia di nostalgia, come per noi che, nati in riva al mare, non potremmo mai rinunciare alla quinta azzurrissima delle nostre vicende. Al mezzo di quei venticinque chilometri, al mezzo della serenità di una vita, i bimbi da istruire a scuola, una moglie e tre figli da amare, il solco atroce di una guerra sconosciuta all’opinione pubblica europea, che ha già sacrificato più di tre milioni di uomini, donne e bambini, stabilisce violentemente un prima ed un dopo, un irrevocabile muro tra quello che è stato e che mai sarà ancora.
Al mezzo del cammino per ricongiungersi alla sua famiglia, Francis incontra il destino che giunge a strappare: una pattuglia di ribelli blocca il bus su cui viaggia (mi spiega che in Congo, ed in massima parte alle frontiere orientali, è un pullulare di bande ribelli che lottano contro altri ribelli per espugnare altri ribelli momentaneamente al potere); viene preso con altri uomini Lendu da altri uomini della stessa tribù, venduti ad un’altra, deportato in un angusto tugurio, dentro un campo di prigionia, soggetto all’arbitrio degli aguzzini.
Ogni notte, ogni santa notte, lo scarpone picchia alla porta e la spalanca sul buio africano, e per qualcuno degli uomini legati sarà l’unica via per prendere sonno, con un proiettile conficcato alla nuca.
Nessuna notizia filtra tra le maglie della rete che stringe questi uomini: i sopravvissuti al rapimento racconteranno a sera, una volta giunti al villaggio, degli uomini incappucciati e legati sui cassoni delle jeep, trascinati a forza di botte e colpi di machete; lo sapranno le donne che sono madri e spose, opporranno il loro vano diniego nell’urlo che seguirà la sorpresa, abbracceranno il figli ed i fratelli di quel fantasma che è divenuto il loro amore. Poi il mesto rito del funerale, e la pioggia di petali e di lacrime a posarsi su un’assenza.
Francis la notte non può dormire: il calcio che elegge la vittima potrebbe toccare lui, ma non è solo questo. Come possono risuonare in quel lembo d’inferno voci di bambini? E come possono ospitare quelle piccole bocche, senza ferirsi, parole così dure, così acuminate?
Kadokò: sono solo picciriddi, i criaturi. Lo traduce in siciliano, il termine swaili , anche se parla un italiano forbito. I criaturi: appena uscite dallo stampo eterno con intatto ancora il crisma dell’innocenza. È questo il tormento del redivivo Francis, più ancora che il terrore di essere sottoposti ad un potere feroce e totale, sono queste dei picciriddi africani, dall’innocenza perduta tra inenarrabili disumane violenze, le voci che lacerano i sonni di Francis, ancora oggi, più che le urla degli uomini torturati.
Attoniti, volgiamo lo sguardo verso il mare, che si vede, aperto fino all’estrema linea, dalla terrazza di Porta di Ponte. Oltre questo confine azzurro sta l’Africa, con il lusso della sua terra e delle sue bellezze, con la miseria dei suoi figli. A pochi passi da noi i Senegalesi montano i palchetti su cui esporre in bella vista la loro merce.
Clandestina è la storia, penso, negata alla luce, e clandestini devono essere coloro che la portano impressa nei gesti e nello sguardo. È più facile nascondere, se il velo da stendere è già nell’etimo del nome che diamo loro. Strappare il velo, ridare dignità alle storie che abbiamo raccolto, dare aria alle voci che premono il petto di questi fratelli neri, è lo spirito con cui la redazione di Suddovest ha abbracciato con entusiasmo la proposta di Medeu: nasce così questo speciale, primo passo di una collaborazione che ci vedrà ancora insieme, noi, Medeu, i nostri amici africani, a tenere desta l’attenzione sui temi, quelli sì clandestini, che narrano l’immigrazione dal punto di vista degli uomini che la subiscono.
La guerra scatenata dai politici contro gli immigrati ci ricorda tristemente che forse non impariamo mai: altri tempi furono abbrutiti dalla caccia al diverso, ed i segni di ciò che accadde, della leggenda nera, sono ancora visibili.
È un pomeriggio di una bellezza struggente, qui ad Agrigento: il vento che soffia raccoglie i colori, li impasta di luce, sfiora la pelle nuda, confonde le voci e i dialetti, i bianchi e i neri, che si incrociano in questa piazza ombrosa, racconta le storie che vengono da lontano, da quel laggiù sconosciuto, oltre la linea dell’orizzonte. È una preghiera, questo vento, che ricongiunge a ciò che sta più in alto di noi, se lo sappiamo ascoltare, per tutti coloro, donne, giovani uomini, madri, kadokò, i picciriddi, che sono annegati alle nostre porte liquide.
Non sarà la cortina di terrore, né la minaccia delle murate libico-italiane che incroceranno sulle rotte di questi disperati a fermarne la voce.
Siamo qui per organizzare il numero speciale, che verrà pubblicato dalle testate di Suddovest e Medeu, unite dallo stesso bisogno di indagare più approfonditamente il fenomeno dell’immigrazione, sotto diversi aspetti, e dell’integrazione nel tessuto sociale ospitante dei tanti immigrati che si riversano sulle nostre coste.
Francis ha un irrefrenabile desiderio di raccontare, più che di raccontarsi: è tutto nei suoi occhi, dentro la sua memoria, il peso delle immagini che gli hanno guastato l’anima, e che ha cercato di annientare prima che lo annientassero. Ma Francis sa che la memoria ha in sé l’urgente bisogno di dispiegare i suoi contenuti, di offrirli come dono prezioso a chi è disposto ad ascoltare, e che altro, lui qui, non potrebbe essere senza il suo peso.
Francis, in più, porta il peso di due vite, separate dal valico di un funerale che fu il suo. Il prima era la moglie, il viaggio settimanale da Kindu, capoluogo della provincia di Maniema, nella zona orientale della Repubblica Democratica del Congo, a Goma, capoluogo della provincia di Kivu nord, ai confini con il Rwanda, dove insegnava in una scuola elementare.
Venticinque chilometri immersi in un paesaggio inciso nel suo sangue, e che so essere materia di nostalgia, come per noi che, nati in riva al mare, non potremmo mai rinunciare alla quinta azzurrissima delle nostre vicende. Al mezzo di quei venticinque chilometri, al mezzo della serenità di una vita, i bimbi da istruire a scuola, una moglie e tre figli da amare, il solco atroce di una guerra sconosciuta all’opinione pubblica europea, che ha già sacrificato più di tre milioni di uomini, donne e bambini, stabilisce violentemente un prima ed un dopo, un irrevocabile muro tra quello che è stato e che mai sarà ancora.
Al mezzo del cammino per ricongiungersi alla sua famiglia, Francis incontra il destino che giunge a strappare: una pattuglia di ribelli blocca il bus su cui viaggia (mi spiega che in Congo, ed in massima parte alle frontiere orientali, è un pullulare di bande ribelli che lottano contro altri ribelli per espugnare altri ribelli momentaneamente al potere); viene preso con altri uomini Lendu da altri uomini della stessa tribù, venduti ad un’altra, deportato in un angusto tugurio, dentro un campo di prigionia, soggetto all’arbitrio degli aguzzini.
Ogni notte, ogni santa notte, lo scarpone picchia alla porta e la spalanca sul buio africano, e per qualcuno degli uomini legati sarà l’unica via per prendere sonno, con un proiettile conficcato alla nuca.
Nessuna notizia filtra tra le maglie della rete che stringe questi uomini: i sopravvissuti al rapimento racconteranno a sera, una volta giunti al villaggio, degli uomini incappucciati e legati sui cassoni delle jeep, trascinati a forza di botte e colpi di machete; lo sapranno le donne che sono madri e spose, opporranno il loro vano diniego nell’urlo che seguirà la sorpresa, abbracceranno il figli ed i fratelli di quel fantasma che è divenuto il loro amore. Poi il mesto rito del funerale, e la pioggia di petali e di lacrime a posarsi su un’assenza.
Francis la notte non può dormire: il calcio che elegge la vittima potrebbe toccare lui, ma non è solo questo. Come possono risuonare in quel lembo d’inferno voci di bambini? E come possono ospitare quelle piccole bocche, senza ferirsi, parole così dure, così acuminate?
Kadokò: sono solo picciriddi, i criaturi. Lo traduce in siciliano, il termine swaili , anche se parla un italiano forbito. I criaturi: appena uscite dallo stampo eterno con intatto ancora il crisma dell’innocenza. È questo il tormento del redivivo Francis, più ancora che il terrore di essere sottoposti ad un potere feroce e totale, sono queste dei picciriddi africani, dall’innocenza perduta tra inenarrabili disumane violenze, le voci che lacerano i sonni di Francis, ancora oggi, più che le urla degli uomini torturati.
Attoniti, volgiamo lo sguardo verso il mare, che si vede, aperto fino all’estrema linea, dalla terrazza di Porta di Ponte. Oltre questo confine azzurro sta l’Africa, con il lusso della sua terra e delle sue bellezze, con la miseria dei suoi figli. A pochi passi da noi i Senegalesi montano i palchetti su cui esporre in bella vista la loro merce.
Clandestina è la storia, penso, negata alla luce, e clandestini devono essere coloro che la portano impressa nei gesti e nello sguardo. È più facile nascondere, se il velo da stendere è già nell’etimo del nome che diamo loro. Strappare il velo, ridare dignità alle storie che abbiamo raccolto, dare aria alle voci che premono il petto di questi fratelli neri, è lo spirito con cui la redazione di Suddovest ha abbracciato con entusiasmo la proposta di Medeu: nasce così questo speciale, primo passo di una collaborazione che ci vedrà ancora insieme, noi, Medeu, i nostri amici africani, a tenere desta l’attenzione sui temi, quelli sì clandestini, che narrano l’immigrazione dal punto di vista degli uomini che la subiscono.
La guerra scatenata dai politici contro gli immigrati ci ricorda tristemente che forse non impariamo mai: altri tempi furono abbrutiti dalla caccia al diverso, ed i segni di ciò che accadde, della leggenda nera, sono ancora visibili.
È un pomeriggio di una bellezza struggente, qui ad Agrigento: il vento che soffia raccoglie i colori, li impasta di luce, sfiora la pelle nuda, confonde le voci e i dialetti, i bianchi e i neri, che si incrociano in questa piazza ombrosa, racconta le storie che vengono da lontano, da quel laggiù sconosciuto, oltre la linea dell’orizzonte. È una preghiera, questo vento, che ricongiunge a ciò che sta più in alto di noi, se lo sappiamo ascoltare, per tutti coloro, donne, giovani uomini, madri, kadokò, i picciriddi, che sono annegati alle nostre porte liquide.
Non sarà la cortina di terrore, né la minaccia delle murate libico-italiane che incroceranno sulle rotte di questi disperati a fermarne la voce.
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