SAN CALO' E LE DISSONANZE DEI MINISTRI DEL CULTO di Tano Siracusa

Adesso che s. Calogero è di nuovo dentro la sua chiesa, nel buio e nel silenzio della sua chiesa, voglio provare a dire alcune cose difficili da dire. Soprattutto per chi come me non è un antropologo, né uno studioso di religioni o di tradizioni popolari, né un teologo, ma un semplice fedele che ogni anno partecipa alla processione.
Il santo ora è dentro la chiesa, e in quel buio e in quel silenzio ci resterà per un anno. Fra messe, omelie, preghiere bisbigliate, rosari, rari profumi d’incenso.
Che farà durante tutto quel tempo, mentre gira la ruota intera di un anno? Di sicuro ascolterà le preghiere che gli vengono rivolte, osserverà con quei suoi occhi sbalorditi la città che si inoltra nel tempo, vedrà uno per uno quelli che nascono e sarà accanto a quelli che se ne vanno, leggerà nel suo libro, forse ogni tanto sarà più contento, ogni tanto si arrabbierà, farà delle grazie, compirà dei miracoli, e ogni tanto sognerà quella vampa di luce come un’esplosione, e il frastuono, il tumulto, le urla, i pani che volano, i tamburi là fuori che rullano e la folla che si comprime e ondeggia ed esulta, quegli uomini che lo abbracciano, lo baciano sulla bocca, gli asciugano già il sudore. Quel lampo di luce fuori dalla chiesa. Di sicuro è il suo sogno più bello durante la lunga notte di un anno.
Il sogno per noi fedeli è lo stesso, ma dall’altra parte, visto da fuori, dalla piazzetta o dalla scalinata, dal ripetersi dei giorni e delle notti, delle sconfitte, rassegnazioni, piccoli e grandi rancori, sgarbi, rimorsi, furbate, invidie, rimpianti. Ma è lo stesso sogno, anche per noi fedeli il sogno più bello:
i portatori che irrompono dentro la chiesa, nel suo buio e silenzio, il rullo dei tamburi, il frastuono, il tumulto, l’attesa, e poi s. Calò che esce da quella notte, barcollante come un resuscitato, come un povero Lazzaro nero nel pozzo di luce abbagliante, e poterlo abbracciare di nuovo, baciare sulla bocca, asciugargli il sudore durante il viaggio che durerà un giorno intero attraverso la città, da est ad ovest, seguendo la curva del sole.
Passerà un anno e il cielo tornerà a curvarsi sulla terra. Di nuovo, dall’alto, dal cielo, il pane cadrà sulla terra. Per un giorno sarà il tempo dell’abbondanza, della guarigione, della vita che esulta sotto il sole e ringrazia, o del ritorno della speranza quando si è disperati. Per un giorno un evento remoto, la cessazione di una lontana catastrofe, il miracolo di un santo che veniva dall’Africa (o il suo sacrificio, come ipotizza genialmente Giandomenico Vivacqua) verrà evocato e festeggiato.
Per un giorno quei due sogni si confonderanno nel miracolo che ogni anno la processione del santo nero rinnova.
Si può capire che la chiesa locale non ne sia entusiasta. Si può capire che alcuni suoi esponenti subiscano ogni anno la processione come un esproprio rapinoso, come un perturbante ritorno di forme di religiosità precristiane o precattoliche (il santo era bizantino), si può capire che tutta quella luce, quel clamore, il ritorno ossessivo della musica tarantolante di Zingarello, quel rullare pazzo dei tamburi, non piaccia ai ministri del culto cattolico. Si può capire.
Quello che non si capisce è perché provino, non potendola impedire, a impoverirla questa processione, ad amputarla, riuscendo quasi a far cessare la tradizione del lancio del pane.
Oppure a stendervi sopra, con l’obiettiva prepotenza degli altoparlanti, una mestissima sonorità di preghiere, rosari, musiche di chiesa incresciosamente dissonanti con il clima sonoro della processione e con la sua tessitura musicale comandata dai portatori.
E qui siamo al più difficile da dire. E da capire, temo. La processione, questa processione disertata dal clero, durante la quale si mangia e si beve, si ride, a volte si piange, a volte ci si azzuffa e si fa la pace, si saltella al tempo della banda e ci si sdraia a terra per la stanchezza e per il caldo, questa processione che da sempre la borghesia cittadina vede da dietro le persiane socchiuse, è un’esperienza profondamente religiosa. Per me, ma credo per molti agrigentini, è una intensa, profonda, misteriosa esperienza religiosa, di fede.
E’ difficile da dire in pubblico, ma ce lo diciamo in tanti durante la processione: le sovrapposizioni sonore, il mancato lancio del pane, i risultati di queste interferenze sulle modalità del culto popolare da parte del clero, vengono subiti come un depotenziamento e una perdita, come semplice diminuzione di un vissuto religioso.
Si può dire questo sperando di essere ascoltati dai ministri del culto cattolico?
Si può dire, sperando di non essere fraintesi, che viviamo in una società basata sulla banalizzazione dello spreco e che in occasione della festa si consuma una forma simbolica e sacra, religiosa, di spreco? Che il mancato lancio del pane non è il venir meno di un reperto storico-antropologico ma di una esperienza religiosa?
Si può convenire che un’Ave Maria gridata dagli altoparlanti durante la processione può al massimo ammutolirla per qualche secondo, zittire la banda, creare una bolla di straniamento, ma non riuscirà mai a imporsi come preghiera?
Insomma si può capire che proprio come il clamore sonoro della festa non disturberà mai la lunga notte del santo, allo stesso modo il suo viaggio a strappi e scossoni, a fughe e tonfi, a Zingarello e tamburi, non dovrebbe essere disturbato dalle sonorità che abitano la penombra della chiesa?
Una fenomenologia religiosa come quella della processione del santo nero si può cercare di impedirla (ed è stato fatto nel 2004, l’anno della Cap Anamur), oppure di ‘disturbarla’, di impoverirla e depotenziarla, ma non di cambiarla.
Poi c’è il trasformarsi spontaneo della processione, l’avvicendarsi delle generazioni, la scomparsa dei contadini, la loro sostituzione con un ‘popolo’ di marginali, e ora gli ombelichi scoperti delle ragazzine, gli orecchini e i tatuaggi dei portatori, la tradizione dei suonatori di tamburo in crisi (ma come può il composito mondo dei musicisti agrigentini non intervenire?), le tante scuole di pensiero sulla festa com’era e come non sarà più.
Ma questo trasformarsi della processione appartiene alla necessità della storia, al semplice trascorrere del tempo: durante la seconda domenica c’erano quest’anno in processione centinaia di ragazzini socialmente ormai indistinguibili, giovanissimi studenti, che festeggiavano nella baraonda assieme ai vecchi portatori. Non è anche questo un miracolo? Questo inoltrarsi del santo e dei suoi fedeli attraverso i decenni, questo ruotare delle generazioni attorno al santo, mentre la città affonda nel futuro della sua storia già millenaria?
Se ne riparlerà fra un anno. E intanto per un anno potremmo provare un po’ tutti ad essere fedeli più degni del santo nero, il santo di chi non vuole rassegnarsi e disperare, delle migliaia di uomini e donne neri come lui, perseguitati come lui, che come lui attraversano il mare per raggiungere la nostra città, per salvarsi. S. Calò fuggiva i vandali ariani, oggi i vandali sono la miseria, il sottosviluppo, le guerre, le dittature, l’egoismo dei ricchi.
Ora che il santo è dentro la chiesa, potremmo cercare di meritare di più il privilegio di espugnare ogni anno quel buio e portare fuori s. Calò. Nella luce abbagliante di luglio e nel tumulto della festa.
 
 

 

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