LA NOSTRA AFRICA di Pietro Baiamonte

L’Africa è un sogno: sognato a margine dei racconti di Hemingway, o sulle immagini del film tratto dal romanzo della Blixen; per tanti l’Africa è il selvaggio mostrato dai documentari di National Geografic.
L’Africa deve essere un sogno.
Ho incontrato l’Africa ad Agrigento, il 14 agosto del 2004, dentro il locali polverosi di un padiglione ormai dismesso, dell’ex ospedale S. Giovanni di Dio. Faceva caldo, e decine di persone si accalcavano all’interno del cortile di fronte a quel padiglione che sarebbe diventato, quel giorno, la “casa di Tarik”. In attesa che l’Africa dimessa, eroica, scampata al deserto ed al mare, giungesse portata, nell’ultimo tratto della disumana odissea, dai bus della polizia. Era l’Africa che non ruba, l’Africa che chiede, perché ha sognato che qui ci fossero, diritti e rispetto. Pochi altri, dentro la struttura, spostavano mobili da una parte all’altra, collegavano computer alla rete elettrica, pulivano dentro le camere, distribuivano letti, e sui letti, lenzuola immacolate.
L’Africa, quel giorno, aveva occhi arrossati e impauriti, membra stanche, sorrisi forzati. Gli astanti in attesa le si sono stretti intorno, calorosi, solidali, consapevoli, alcuni, che l’odissea della Cap Anamur avrebbe dato, a chi quel giorno era lì, una certa visibilità locale. Qualche telecamera, infatti, riprendeva le immagini, qualche microfono raccoglieva commosse parole di solidarietà, aperte critiche alle contrapposte correnti politiche, profetici proclami di infallibili strategie di lotta e di sostegno. L’Africa, a pochi passi, aveva lo sguardo spaesato, chiusa dentro una diffidenza atavica, impossibile da scalfire, l’odore degli abiti cotti dal sole del deserto e dalla salsedine e dal sudore di mille paure. Hanno spezzato e diviso il pane, hanno messo la musica ad alto volume, per vedere l’Africa, colorata e allegra, fare ciò per cui è nata: danzare. Non so se l’Africa abbia davvero fatto ciò che tutti si aspettavano: stavo dentro, insieme a mia moglie e ad un gruppo di persone, a cui quest’esperienza mi avrebbe indissolubilmente legato, indaffarato, affaticato dalla responsabilità che ci cadeva addosso, a dare vita al centro di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati. E a disagio, a fianco di quella triste caciara, appena fuori dalle porte a vetri. Ricordo, durante i primi giorni, le innumerevoli visite, di politici, di dirigenti dei diversi uffici, di giornalisti. Ricordo il rumore delle pale del ventilatore sul tetto della stanza che per qualche tempo sarebbe diventata la nostra seconda casa - mia e dei miei meravigliosi, nella loro indistruttibile abnegazione ed umanità, compagni di viaggio- ed io, seduto accanto ad un informale medico della Asl, intervistavo i nostri ospiti sui loro mali, e vedevo, tatuate sul loro corpo, le stimmate di una vergogna che ci ostiniamo a credere sia ancora solo Africa.
Poi sparirono tutti: agguerriti no-global, solerti compagni, compagnie spirituali, giornalisti locali, distinti politici, informali dirigenti di enti locali; ci giunsero, di lontano, le aspre critiche di qualcuno di loro, ma le urgenze del centro, il continuo stato di emergenza del nostro avamposto di frontiera, ci toglievano la voglia di replicare; vennero ancora a trovarci alcuni giornalisti tra cui mi piace ricordare Franz La Paglia, che lasciò il suo numero, nel caso in cui avessi avuto bisogno della sua conoscenza nel campo dell’immigrazione, Lorenz Gallmetzer, vulcanico ed attento giornalista della ORF, televisione austriaca, Giuseppe Laurenti, che avrebbe avuto, dopo aver vissuto alcuni giorni dentro il centro di accoglienza, dividendo il sonno ed il pane con i nostri ospiti, parole gentili nei nostri confronti, raccolte nel libro che da questa esperienza ha ricavato. E pochi altri.
Siamo stati soli ad affrontare l’emergenza dei continui sbarchi, delle tante troppe tessere d’Africa da incastrare nel mosaico del nostro troppo piccolo centro. Siamo rimasti in pochi ad udire il lamento contenuto dell’Africa che per bocca di un suo figlio, a noi che non avevamo più posti, diceva “ è da che sono nato che non c’è soluzione per i miei problemi”.
Siamo rimasti soli, noi e l’Africa, a studiarci, a tentare approcci, a scambiare i soli beni di cui eravamo in possesso: le parole. Salutavamo loro in arabo, o in inglese, o in francese, e loro noi in un italiano che sembrava più melodioso tra quei denti sorprendentemente bianchi. Era il modo di entrambi di tenderci una mano, di schiudere una porta e dire l’un l’altro: accomodati. La città intorno non aveva più molto spazio, né tempo, per ascoltarli. L’Africa, per molti, era tornata ad essere il sogno d’evasione e d’avventura.
Ricordo un giorno, nell’ora che volge al disio, (e chissà quanto pungente, per loro, il disio) l’Africa, che già ci mostrava le sue diverse anime, raccolta intorno al “vecchio” mister Adam Mussa, capo della comunità sudanese in quel fazzoletto di terra straniera, seduta sulle stuoie sdrucite, stese sull’asfalto, piuttosto che sulle sabbie, intonare bocca per bocca, lente litanie, o discutere dei fatti del giorno, accaduti in quel microcosmo che è stato il centro.
Fu allora che l’Africa, per noi, si scisse nei suoi diversi volti: vedemmo la fierezza degli eritrei, la sofferta eleganza dei somali, la signorilità e la gentilezza dei sudanesi, la calda e allegra affabilità dei congolesi e dei liberiani, la rude dignità degli ivoriani. Cominciammo, noi, a comprendere le diverse lingue che si parlavano nel centro, ed i mediatori divennero preziosi ponti tra noi e le diverse culture, oltre che infaticabili ambasciatori delle più umane e banali esigenze. Entrarono a far parte della nostra umana esperienza le torture, le violenze, i nomi di vecchie Auschwitz dai suoni nuovi ed esotici, e i nomi di chi tra loro quei luoghi, per sventura, aveva abitato.
Ricordo le parole di un amico mussulmano, anche lui passato dal centro di accoglienza, e finito da qualche parte in Italia alla ricerca di un lavoro, a cui io devo la ricerca della spiritualità smarrita, il mio riconoscermi cristiano: mi raccontò che Allah, quando un mussulmano muore, prima di esprimere un giudizio irrevocabile, chiede all’anima che sta al suo cospetto: cosa hai fatto di ciò che hai saputo?
Se c’è un limite oltre il quale non è più possibile fingere di non aver saputo (di fronte ad un dio, a sé stessi o agli uomini è di poca importanza), noi lo superammo in occasione delle prime interviste della Commissione Centrale, riunita ad Agrigento nel dicembre del 2004, per vagliare le richieste di asilo politico della folta comunità africana ospitata. Preparammo i nostri ospiti, ormai divenuti amici, all’intervista. Fu un momento sconvolgente, per noi e per loro: il sostegno di Tiziana, mia moglie e psicologa del centro, mi fu prezioso per continuare il mio lavoro, e per comprendere che il limite di cui sopra, era ormai ampiamente superato: avevo udito i resoconti di violenze arbitrarie e disumane, ne avevo visto le impronte indelebili sui corpi segnati dalle torture; sapevo, e per il resto della mia vita avrei saputo.
Oggi l’Africa è, per noi, che le abbiamo stretto la mano, uno specchio, dentro cui è doloroso riconoscersi: l’Africa è, con tutti gli altri paesi che hanno conosciuto la violenza della colonizzazione occidentale, la metastasi prodotta da un sistema economico che si sostiene sullo stato di bisogno dei più, per sopravvivere e rafforzarsi, per controllare le risorse economiche, e che non disdegna di usare la violenza per mantenersi in vita. Oggi l’Africa è la maceria fumante del disastro prodotto dal fallimento di quel sistema economico. Basterebbe considerare nel giusto contesto la crisi del delta del Niger, per chi ha già dimenticato il Biafra, la cruenta divisione somala, il genocidio ruandese, le scorrerie dei Janjaweed nella regione del Darfhur, in Sudan, o, più semplicemente, l’inganno dei confini tra gli stati, come mi raccontava Francis, rapito dai guerriglieri della tribù nemica, per conoscerne, irrevocabilmente, gli effetti.
Mantenere le distanze con l’Africa, nutrire quella diffidenza che ci coglie al suo cospetto, (quando l’incontro avviene tra le nostre case, nelle vie che sono nostre), e che è radice di razzismo, aiuta ad assolverci dalle nostre colpe. Cosa c’entrano, allora, le parole di Dante con quanto finora scritto? Riflettevo che è ben strano che un’anima nera come quella del conte Ugolino, che sconta ad un passo da satana, e dai tre grandi traditori, la pena della sua colpa, riesca a persuadere Dante, apostrofandolo, a condividere il suo dolore, a piangere la sua pena, eterna come i ghiacci che lo imprigionano. E Dante, che lieve nel castigare le colpe non è, accoglie dentro di sé il dolore del conte, lascia che lo ferisca, che lo accechi al punto di chiedere che un rigurgito dell’Arno ne vendichi l’atrocità subita, ed il misfatto dei suoi carcerieri venga tremendamente punito, annegando Pisa e tutti i suoi figli. C’è un limite, tracciato dalla coscienza di essere grani di uno stesso destino, anche alle sofferenze imposte a sconto delle colpe dei peggiori tra gli uomini. Ed esiste un punto in cui, anche dentro l’inferno, si crea uno spazio in cui è ancora possibile comprendere il dolore altrui e condividerlo. Qualunque legge, e soprattutto una legge che regoli il diritto all’accoglienza, di qualsiasi società, che non tenga conto di questa possibilità offerta dalla condivisione e dalla reciproca comprensione ed ascolto, e che non si misuri con questo sogno, che è negli occhi dell’Africa che preme alle nostre porte, credendo che si apriranno su una valle in cui la pace ed il diritto scorrono copiosi, sarà destinata a fallire, e ad indurirci, noi e loro, come il ghiaccio che stringe i traditori nei cerchi delle malebolge.

 

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