LE POESIE DI MARIA di Vito Bianco
Submitted by Suddovest on Tue, 24/06/2008 - 22:55
In Festa mobile, il memoir sul suo apprendistato letterario nella Parigi degli anni Venti, Hemingway racconta l’incontro con un giovane poeta di qualità i cui versi circolavano tra gli amici ancora inediti. In una conversazione al tavolo di un caffè, il giovane dice allo scrittore alle prime armi: “E’ importante che ci siano buoni poeti inediti”. La frase, che in un primo momento può sembrare sbagliata o inutilmente enigmatica, dice una verità trascurata, e cioè che il periodo più o meno lungo che precede l’esordio regala una libertà che in seguito non si avrà più, e consente di lavorare senza l’assillo di un’immagine pubblica dalla quale, dopo il primo libro, si viene inevitabilmente condizionati.
E’ molto probabile che Maria Saieva, ventisettenne agrigentina di stanza a Palermo per motivi di studio, si dichiarerebbe d’accordo con quel poeta, se è vero che da qualche anno, e senza smanie di pubblicazione, lavora con pazienza certosina all’affinamento di un personale utensile poetico, una lingua duttile e svagata e prensile con la quale porta a spasso i suoi pochi – per il momento –lettori. Ho scritto “porta a spasso” non a caso, perché i suoi testi sono di solito degli itinerari narrativi straniati e surreali, nei quali il viaggio fisico, lo spostamento concreto da un posto all’altro provoca un imprevedibile percorso mentale fatto di scoperte e accostamenti inaspettati e d’improvvise illuminazioni metaforiche.
Allo scopo di trarre da questi “viaggi” il massimo del risultato poetico, Maria si è forgiata una misura metrica che si avvicina alla prosa senza mai diventarlo. Potrebbe sembrare una “prosa poetica”, ma è invece un verso lungo con una sua precisa necessità connotativa, che utilizza le potenzialità della prosa mettendole al servizio di un verso libero con un carattere spiccatamente atonale, che è esattamente quello che le serve, e che ogni tanto il nostro poeta si diverte a scombinare con scarti lirici, come a far vedere che se vuole sa incantare anche cantando.
Naturalmente la cosa che più conta è lo sguardo, lo stupore, il passo mentale da Alice nel paese delle meraviglie a cui non sfugge nulla, neppure un arcobaleno “altissimo”. “Lo scorsi stendendo il bucato/…/ ero la sola persona affacciata/e non tollero gli sprechi” (Giorni bui). Non c’è niente di meglio, per uno spirito come il suo, di un trasferimento in treno, anche se dura solo un paio d’ore e il paesaggio che attraversa l’ha guardato decine di volte. Ma lei sa che ogni volta è diversa dalle altre. Basta stare attenta e osservare meglio, per vedere una strana domenica che “ci corre a fianco/e insieme mangiamo la campagna Su e giù/per le colline di ciniglia/ con le spighe e il vento che le pigia/…/se fossi Dio O un gigante/Mi passerebbe il tempo a lisciarle” (Quando vado a P.).
Questa incantevole leggerezza ha ovviamente dei numi tutelari. Da sempre la poesia viene da altra poesia; ogni autore trova la propria voce nel confronto dialogico con quelli che lo hanno preceduto, senza con ciò dovere per forza scomodare “l’angoscia di influenza” teorizzata da Harold Bloom, perché il confronto può ben essere pacifico e persino euforico. Maria si è sentita sicura di poter osare quel che aveva in testa quando ha scoperto, per stare dentro i confini della nostra lingua, il rigore nella libertà di Elio Pagliarani, che le ha indicato la strada per uscire dalla tradizione lirica novecentesca, ermetica e postermetica.
Insomma, si è guardata attorno e ha scelto i suoi maggiori. Come la polacca Szymborska, alla quale molto somiglia, nell’ironia e nell’ingannevole facilità con cui orchestra la trama poetica, e nella capacità di “pensare con i versi”, ossia l’abilità nello sfruttare la forza inventiva della poesia per acquisire al pensiero nuovi territori. Ma sempre muovendo da una nitida vigilanza visiva: “Mangiavo un gelato guardavo dei ragazzi giocare con un cane /seduta su una panchina /era un cane piccolo./Poi di colpo si fa buio e non riesco a vedere il cane/ il guinzaglio pende dal polso del padrone/e sfiora la polvere del colore del cane”.
Sembra tutto tranquillo, ma lentamente le cose cambiano, forse non erano tanto tranquille neppure prima, il gioco non era così neutro se adesso arriva lo scatto e il pensiero fa una curva e si perde: “e tutt’a un tratto penso che Miliardi di anni fa/Qui era tutto un fuoco, che ribolliva di lava/…/e adesso c’è il cane, il guinzaglio il lampione/l’ombra del cane la luce gialla,/e questa panchina sghemba/e io che magio il gelato”.
Nella poesia di Maria Saieva ci sono anche i gatti. E il tempo che cambia e gli equivoci dell’amore che lascia ferite invisibili; e gli andirivieni della mente e le nuvole, queste creature del cielo che a volte possono diventare lo specchio aereo di un’impazienza, le nuvole che sono cambiate, “non hanno più/nessuna forma arrancano nel cielo/uguali a questo treno”.
E ora che il treno riparte nella direzione opposta “io mi sento/ le formiche sulla fronte” e nient’altro, nemmeno un “nomignolo/qualcosa che mi renda familiare”, neppure “due righe/del destino su di me/nemmeno le iniziali,/la parola fine”.
E’ molto probabile che Maria Saieva, ventisettenne agrigentina di stanza a Palermo per motivi di studio, si dichiarerebbe d’accordo con quel poeta, se è vero che da qualche anno, e senza smanie di pubblicazione, lavora con pazienza certosina all’affinamento di un personale utensile poetico, una lingua duttile e svagata e prensile con la quale porta a spasso i suoi pochi – per il momento –lettori. Ho scritto “porta a spasso” non a caso, perché i suoi testi sono di solito degli itinerari narrativi straniati e surreali, nei quali il viaggio fisico, lo spostamento concreto da un posto all’altro provoca un imprevedibile percorso mentale fatto di scoperte e accostamenti inaspettati e d’improvvise illuminazioni metaforiche.
Allo scopo di trarre da questi “viaggi” il massimo del risultato poetico, Maria si è forgiata una misura metrica che si avvicina alla prosa senza mai diventarlo. Potrebbe sembrare una “prosa poetica”, ma è invece un verso lungo con una sua precisa necessità connotativa, che utilizza le potenzialità della prosa mettendole al servizio di un verso libero con un carattere spiccatamente atonale, che è esattamente quello che le serve, e che ogni tanto il nostro poeta si diverte a scombinare con scarti lirici, come a far vedere che se vuole sa incantare anche cantando.
Naturalmente la cosa che più conta è lo sguardo, lo stupore, il passo mentale da Alice nel paese delle meraviglie a cui non sfugge nulla, neppure un arcobaleno “altissimo”. “Lo scorsi stendendo il bucato/…/ ero la sola persona affacciata/e non tollero gli sprechi” (Giorni bui). Non c’è niente di meglio, per uno spirito come il suo, di un trasferimento in treno, anche se dura solo un paio d’ore e il paesaggio che attraversa l’ha guardato decine di volte. Ma lei sa che ogni volta è diversa dalle altre. Basta stare attenta e osservare meglio, per vedere una strana domenica che “ci corre a fianco/e insieme mangiamo la campagna Su e giù/per le colline di ciniglia/ con le spighe e il vento che le pigia/…/se fossi Dio O un gigante/Mi passerebbe il tempo a lisciarle” (Quando vado a P.).
Questa incantevole leggerezza ha ovviamente dei numi tutelari. Da sempre la poesia viene da altra poesia; ogni autore trova la propria voce nel confronto dialogico con quelli che lo hanno preceduto, senza con ciò dovere per forza scomodare “l’angoscia di influenza” teorizzata da Harold Bloom, perché il confronto può ben essere pacifico e persino euforico. Maria si è sentita sicura di poter osare quel che aveva in testa quando ha scoperto, per stare dentro i confini della nostra lingua, il rigore nella libertà di Elio Pagliarani, che le ha indicato la strada per uscire dalla tradizione lirica novecentesca, ermetica e postermetica.
Insomma, si è guardata attorno e ha scelto i suoi maggiori. Come la polacca Szymborska, alla quale molto somiglia, nell’ironia e nell’ingannevole facilità con cui orchestra la trama poetica, e nella capacità di “pensare con i versi”, ossia l’abilità nello sfruttare la forza inventiva della poesia per acquisire al pensiero nuovi territori. Ma sempre muovendo da una nitida vigilanza visiva: “Mangiavo un gelato guardavo dei ragazzi giocare con un cane /seduta su una panchina /era un cane piccolo./Poi di colpo si fa buio e non riesco a vedere il cane/ il guinzaglio pende dal polso del padrone/e sfiora la polvere del colore del cane”.
Sembra tutto tranquillo, ma lentamente le cose cambiano, forse non erano tanto tranquille neppure prima, il gioco non era così neutro se adesso arriva lo scatto e il pensiero fa una curva e si perde: “e tutt’a un tratto penso che Miliardi di anni fa/Qui era tutto un fuoco, che ribolliva di lava/…/e adesso c’è il cane, il guinzaglio il lampione/l’ombra del cane la luce gialla,/e questa panchina sghemba/e io che magio il gelato”.
Nella poesia di Maria Saieva ci sono anche i gatti. E il tempo che cambia e gli equivoci dell’amore che lascia ferite invisibili; e gli andirivieni della mente e le nuvole, queste creature del cielo che a volte possono diventare lo specchio aereo di un’impazienza, le nuvole che sono cambiate, “non hanno più/nessuna forma arrancano nel cielo/uguali a questo treno”.
E ora che il treno riparte nella direzione opposta “io mi sento/ le formiche sulla fronte” e nient’altro, nemmeno un “nomignolo/qualcosa che mi renda familiare”, neppure “due righe/del destino su di me/nemmeno le iniziali,/la parola fine”.
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