IL FUTURO DEL PD: CAMBIARE IL LIBRO NON GIRARE PAGINA di Tano Siracusa

 A  conclusione della conferenza stampa convocata per fare un bilancio della sua esperienza elettorale, Vivacqua ha riproposto una riflessione che ha fin dall’inizio accompagnato il suo ingresso nel recinto della politica. Si tratta di una riflessione sul linguaggio, sull’usura del lessico novecentesco, che può costituire un utilissimo strumento di orientamento in quel porto delle nebbie che è oggi la sinistra. Credo si possa riassumere così: continuiamo a usare parole alle quali non corrispondono più le cose, o perché le cose sono talmente cambiate da essere diventate ‘altre’ o semplicemente perché non ci sono più.E si potrebbe aggiungere forse che a questo autonomizzarsi delle parole corrisponde il rendersi autonomo del ceto politico, il suo (auto)riprodursi come casta.

Cosa vogliono dire oggi parole come moderatismo, sviluppo, classe, solidarietà, democrazia, ma anche destra e sinistra?Berlusconi è un moderato? E’ segno di moderatismo l’ondata xenofoba che attraversa il paese? Sarebbero quindi degli estremisti i vescovi che vi si oppongono? E cosa si deve intendere per sviluppo in un’epoca storica in cui l’emergenza demografica, quella energetica, quella ambientale e, adesso in modo tragicamente dirompente, quella alimentare si sovrappongono in uno scenario apocalittico? Quale realtà, quale ‘sviluppo’ misurano i PIL nazionali? E cosa è diventata in questo contesto la democrazia, cosa si ‘rappresenta’ nelle istituzioni attraverso il rituale di elezioni sempre meno partecipate, quale tipo di opinione che non sia stata plasmata e confezionata dal sistema mediatico? E che nome dare, con quale parola designare l’immenso esercito dei poveri del mondo in marcia verso il miraggio dell’Occidente? Se la classe operaia novecentesca non c’è più, questa nuova ‘cosa’ che spaventa e incanaglisce, come va chiamata, e la sinistra come intende rapportarsi ad essa? Usando quali parole: ‘sicurezza’, ‘solidarietà’, ‘lotta di classe’? E uomini di destra come Di Pietro e Travaglio perché si trovano a sinistra? E posizioni di destra come quelle di Cacciari come possono essere sostenute da sinistra?

Ha ragione Vivacqua: le cose sono cambiate e le parole no. Adesso crediamo che tutto sia cominciato nell’89, ma in realtà tutto stava cambiando già in quegli anni ‘60 sulla cui superficie si abbatteva l’ultima ondata della soggettività rivoluzionaria moderna e nelle cui profondità maturavano le condizioni del nuovo scenario postmoderno: di uno smisurato dominio dell’ oggettività tecnico-scientifica orientata verso la negazione di qualsiasi limite allo sviluppo, in un contesto dove l’improvvisa visibilità del ‘limite’ avrebbe presto reso drammaticamente minacciosa l’inerzia di quell’ apparato autoregolantesi. Perciò Vivacqua sulla soglia del recinto della politica ha subito detto che il lessico che vi è in uso è inservibile.

E ciò, aggiungiamo, è particolarmente vero a sinistra, dove la politica dovrebbe essere intesa come ‘mezzo per’, come razionalità orientata verso ideali genericamente umanistici, di sopravvivenza della specie ormai e innanzitutto, ma anche e contestualmente di libertà e di giustizia sociale.

E’ in questo quadro di sconnessione fra le ‘parole’ e le ‘cose’ che si colloca la crisi della sinistra. Che non è solo siciliana e italiana, ma europea e occidentale. Ed è in questo quadro che l’esperienza politica di Vivacqua ha avuto inizio.

Non può sorprendere allora che l’ esigenza di un profondo rinnovamento del linguaggio sia stato il suo biglietto di presentazione entrando nei DS prima e nel PD poi; come non può sorprendere che la stessa esigenza non sia stata avvertita da nessuno della vecchia guardia dei DS e della Margherita che presidiano oggi il PD.

E’ l’unico punto di forza di Vivacqua, ma è anche un grande punto di forza.

Due sono infatti i possibili itinerari del PD: il primo è quello di una sua sopravvivenza legata alla sopravvivenza dei vecchi gruppi dirigenti e delle loro parole, l’altro è quello di un partito che cambia lessico per tornare ad abitare un presente denso di incognite e di scenari inesplorati con l’ambizione di governarlo.

L’esperienza di Vivacqua sembra indirizzata verso questo secondo difficile percorso, lungo il quale non hanno più alcun senso le contrapposizioni che oggi paralizzano la vita interna del PD e che già condizionano le dinamiche fra i vari gruppi che hanno sostenuto (o non hanno sostenuto) la candidatura di Vivacqua.

Non c’è da girare pagina, ma da cambiare libro.

Una storia, un ciclo si sono probabilmente chiusi, e i gruppi dirigenti che provengono dal vecchio PCI e dalla vecchia DC, ma anche dagli scenari ormai lontani del crollo della prima repubblica, non possono oggi che riconoscere la loro sconfitta e uscire dalla scena. Anche con dignità, perfino con l’onore delle armi se lo chiedono.

Sarebbe ingenuo e forse anche ingeneroso addebitare ai Fassino, ai Boselli, ai Prodi, oppure ai Capodicasa, agli Adragna, agli Arnone, ai loro ‘errori’ politici, l’attuale profonda crisi della sinistra in Italia e in Sicilia. E Bertinotti e la sinistra radicale, allora? E in Provenza, in Catalogna, in Baviera?

L’onore delle armi, dunque, se lo chiedono. Ma poi uscire dalla scena di una storia che è intanto troppo cambiata, che non è più quella che le loro parole descrivono.

I duelli locali fra Adragna e Capodicasa e Arnone, come le giostre nazionali di D’Alema, Bindi, Rutelli, somigliano troppo a quelli di quei cavalieri che continuavano a combattere senza accorgersi di essere stati colpiti a morte. Disarcionati dalla storia, prima che dai loro eventuali demeriti.

Poi, si capisce, si può tornare nelle seconde file anche dopo i cinquanta anni, vivi e vegeti, e da lì fornire il proprio contributo alla causa. Oppure si può continuare a duellare per altri venti anni, ma nella generale convinzione che lo si farebbe non per cercare di governare la complessità contemporanea ma per incorporarsi come ceto politico ad una realtà che non si può e perciò non si vuole cambiare.

Quattro, cinque anni di opposizione sono un tempo ragionevole per tentare di avviare un ricominciamento della sinistra: sul piano delle idee, dei linguaggi, delle esperienze, ma anche su quello degli uomini e delle donne che lo devono costruire.

Capiremo presto, a Roma, a Palermo, ad Agrigento, se, dentro e fuori il PD, chi ci vuol provare sarà messo nelle condizioni di farlo.

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