SI PUO' PERDERE MA NON BISOGNA PERDERSI di Davide Natale
Alle otto del mattino, puntuale, busso. Al citofono Elisabetta, la riconosco immediatamente: - Papà ancora non è pronto, accomodati – mi dice con un fare che, malgrado i suoi pochi anni, non lascia dubbi sul futuro che l’eleganza ha deciso di incarnare. Chiudo il cancello metallico che, attraverso il vialetto alberato, mi conduce alla veranda. Elisabetta mi viene incontro -Ciao Davide. Come stai?- -Bene- ho il tempo di rispondere quando, improvvisamente, alle sue spalle Giandomenico, ancora in accapatoio e pantofole, profumo di bagnoschiuma, dà forma alla voce che, subito dopo aver varcato il cancello, udivo tuonante.- Io voglio sapere dov’è il partito, tutto il partito. Ma voglio proprio sapere che fine ha fatto. Ma è mai possibile che qui c’è un provocatore che mi vuole fare passare per il candidato di un senatore che non ho mai avuto il piacere di conoscere? E nessuno, dico nessuno, che senta il dovere di dire, pubblicamente, due parole? Ma fatemi il piacere. Possibile che non ci sia ci sia qualcuno, un deputato regionale, un deputato nazionale, un qualunque blasonato di partito che vada in televisione a dire come stanno realmente le cose? Vabbè. Senti, sono in ritardo e sto qui ancora in accappatoio e non ho nemmeno preso il caffè. Ci sentiamo più tardi. Ciao -.
Oggi è una di quelle giornate, penso, che iniziano rumorose, urlate. Giandomenico mi prende per un braccio, mi porta dentro casa mentre, con una mano a pigiare i numeri del telefono, cerca di dare la carica ad un partito che sembra frastornato, distante, assente. – Beviamo un caffè – mi dice sorridendo, - e andiamo, che già siamo in ritardo – mentre Elisabetta, adesso, la vedo, nel giardino, ampio, che separa la casa dal resto, inseguire un pallone rosso che rimbalza fra i cordoli di un vialetto che divide l’ammattonato dalla brulla terra ricoperta di aghi di pino.
- A che ora è la conferenza stampa?- mi chiede Giandomenico, con la voce, improvvisamente divenuta conciliante, morbida, pacata. – Alle undici?Bene, bene, e vediamo che succede.-
Come fa, mi chiedo, come fa ad agitarsi animosamente, battere i pugni con rabbia e, pochi istanti dopo, trovare una serenità, una calma di tramonto?
Adesso siamo seduti, uno di fronte l’altro, a bere un pessimo caffé, buono soltanto a scatenare la voglia di un altro caffè, bevuto altrove. Giandomenico sorride, mi guarda come se dovesse lui rassicurarmi, e con un cenno della testa, mossa dal basso verso l’alto e non troppo lentamente, mi suggerisce di iniziare la mattutina relazione, la previsione di questa giornata di campagna elettorale, di accuse e assenze, di microfoni e panini ingurgitati per strada, a guidare un’auto piena di manifesti e volantini, radio accesa e puzza di sigaretta. Ovviamente, nel frattempo, il telefono è un continuo urlo elettronico, un continuo richiamo come un volerci ricordare che c’è un mondo, là fuori, che attende qualcosa, che vuole qualcosa, che spera qualcosa. Ed io, che mi ritrovo sempre più spesso a fare cose alle quali mai avrei pensato di dedicarmi, a dire del Giornale di Sicilia, dell’intervista a Teleacras, della conferenza stampa con gli ex assessori della giunta Zambuto, e poi Ravanusa, Canicattì, Licata. E sempre, in agguato come i vermi sulla frutta dimenticata al sole, le dichiarazioni di Peppe Arnone, la mafia, i crisafulli, i capodicasa e, in ultimo, ad alzare il tiro, i vivacqua. Giandomenico sorride, e quel sorriso, capisco, è sincero, leale come i suoi occhi e le sue parole quando, ad interrompermi, mi dice, per dirlo a sé stesso, che è meglio perdere ma non perdersi, che il suo obiettivo non è certo quello di combattere peppe arnone, ma la destra ed il suo malgoverno, la povertà e non i poveri, l’arroganza e non l’eleganza. Mi chiede se ho sentito Paolo, Roberta, e gli altri (ex) assessori. Di contattarli e verificare qualsiasi imprevisto, correggerlo, renderlo vano. Si alza rimandando ad un dopo quanto mai prossimo, dettato dalla necessità di indossare abiti pubblici. Inizio a telefonare. Paolo, come sempre mi dice che tutto è a posto, mi impone puntualità e, nel frattempo, aggiunge una infinità di informazioni che, nelle poche ore trascorse senza esserci sentiti, ha avuto modo di raccogliere. Come sempre un fiume in piena, parole, numeri di telefono, informazioni, articoli di giornali, dichiarazioni, appuntamenti, i manifesti, le radio, lo spot alla tv di Sciacca, Canicattì, e poi Licata, la cena con un amico, e poi le dichiarazioni di Tizio, le parole di Caio, appunta questo che poi lo dimentichiamo e, nel frattempo, a rassicurare, lavorare e lavorare. Lo conosco da molto poco Paolo, da quando, pochi giorni dopo il suo insediamento al comune di Agrigento come assessore, avemmo modo di incontrarci. Io a voler, organizzare, programmare, fra le altre cose, la prima Notte Bianca di Agrigento, e lui, senza esitare, senza alcun problema a dire di si, voi avete già lavorato bene, bisogna fare, lavorare, telefonare, articoli di giornale, televisione, appuntamenti, la stampa, la pubblicità, bisogna fare, attenzione a questa cosa, ed il programma, ed ancora questo… ci vediamo domani e chiariamo tutto.
Ricordo che, invece, non arrivammo al domani, non ci fu tempo. Lo incontrai nel pomeriggio e come se mi stesse raccontando l’ultima delle sciocchezze possibili mi disse: “Notte Bianca? Fatto. Ho già pensato ad un suo possibile svolgimento. Abbiamo qualche risorsa, molte idee. Via Atenea come ‘dorsale artistica’? Si può fare. Ci vediamo domani mattina in assessorato alle 7,30. Pianifichiamo tutto e mi illustrerete la vostra idea. A domani”.
Un ricordo lega Paolo alla mia mente più di ogni altro accadimento trascorso insieme. È appuntato da una immagine del concerto finale, in piazza Pirandello, della Notte Bianca. Ricordo, infatti, che l’intera associazione che allora rappresentavo volle, quella sera di trionfi, salire sul palco, a prender applausi e metter la faccia, riconoscimento effimero, forse puerile, sicuramente tardivo per un lavoro soltanto in parte, o peggio per nulla, svolto. Io no. Rimasi ai piedi del palco, lontano, discosto, a guardare da posizione eccentrica quanto stava accadendo. Al mio fianco scorsi così, per caso, due sagome conosciute e raccolte tra le infinite facce al mio intorno ignote. Erano quelle di Paolo Minacori e di Pietro Baiamonte. Entrambi, sorridenti, mi puntavano, come un segugio da caccia con la sua preda, a domandare cosa, in una serata memorabile come quella che si stava per consegnare alla città di Agrigento, avesse il mio volto, cupo, incupito, dissonante rispetto alla gaiezza del contesto. Spiegai loro le mie ragioni, il fallimento che, all’orizzonte, si annunciava. Mesi di lavoro, inutilmente, polverizzati. Improvvisamente, definitivamente. Ricordo i loro volti, li ricordo bene. Piero, faccia più espressiva mai avrebbe potuto, il buon Dio, immaginare ghignò. Più che sorpreso, questo avvertivo, ebbe conferma di quanto già, in mente sua, si era palesato. Paolo, invece, non colse pienamente la mia delusione, e destinò il tutto a colpevolizzare una mancata perfezione alla quale entrambi avevamo mirato, più che ad un totale imbarbarimento che, dall’indomani sino ai mesi a venire, avvertivo profilarsi. Rinviammo a giorni meno rumorosi la discussione ma, e lo ricordo bene, mi segnò l’espressione di delusione che lo colse nel non poter condividere la sua, più che giusta e doverosa, soddisfazione. Nel frattempo l’associazione sedeva, sull’altare dei consensi veloci, comoda e distratta, orfana e oramai destinata all’oblio. Questo, del resto, è accaduto, accadde.
Elisabetta, nel frattempo, ha deciso di non inseguire più il pallone che, abbandonato ad un raggio di sole, appare di un colore indefinibile, cangiante, mutevole come gli occhi di Giovanni che, in braccio a Giandomenico, è pronto per andare all’asilo.
– Dà – mi dice Giandomenico – accompagniamo Giovannino all’asilo e andiamo - . Un bacio ad Elisabetta, forte, come un doloroso addio che ogni istante trascorso lontano procura, misura dell’infinito amore che lega il padre e la figlia, e Giandomenico si avvicina alla macchina, Giovanni in braccio e via, ad iniziare una giornata di campagna elettorale, microfoni e televisioni, parole e chilometri, mani e fogli di giornali, sorrisi e paure, speranze e delusioni.
Terminata la conferenza stampa avverto un’aria serena intorno. Giandomenico è contento, soddisfatto. Le cose dette, così come le cose ascoltate, gli sono sembrate sufficientemente corrette, esatte, apprezzabili e condivisibili. Si aspetta, adesso, Piero Luparello. Chissà cosa farà. La primavera agrigentina è, tutto sommato, nelle gambe, nelle teste, nelle speranze di molti. Quei molti che hanno vissuto Agrigento la scorsa estate, l’hanno vista, per un solo istante, diversa. Ed in quella diversa forma, in quella maggiore sopportazione ai sempre più incistati vizi di questa città, hanno voluto dare un peso diverso, meno definitivo, non più irredimibile.
Al bar, adesso, beviamo un caffè bollente, amaro, scuro come è giusto che debba essere un caffè. È terminata da poco, la conferenza stampa. Ascolteremo i servizi e leggeremo i giornali. Staremo a vedere. Giandomenico parla al telefono, ininterrottamente. Piero mi guarda sorridente, Emilio, stremato dalla stanchezza, prova a socchiudere gli occhi, anche soltanto quell’attimo che serve a non perdere, e non far perdere, l’abitudine. Alle 15 registriamo il nuovo spot e, lo sappiamo bene, non è necessario preparare quasi nulla. Giandomenico va a braccio, possiede le idee, le parole e la faccia. Il resto devono farlo gli agrigentini. Già, è proprio vero, è proprio così. Giandomenico possiede le idee, le parole e la faccia. Sappiamo tutti, perfettamente, cosa deve fare e cosa non deve fare. La sua spontaneità, così come ha colpito noi, avrà modo di colpire la gente.
Mi ritorna alla mente, adesso, un’immagine, improvvisa, fulminante. Non ricordo né quando né dove, ma ricordo bene l’immagine di una bambina mentre abbraccia il suo papà, con tanto di quel trasporto che un abbraccio così ricevuto sarebbe bastato un’intera vita, avrebbe giustificato la presenza su questa terra, avrebbe reso tutto il resto un accadimento così momentaneo da poter essere, nell’immediato, rimosso. Un abbraccio vero. Una lacrima leale tra le infinite gocce di liquidi sui visi della gente.
Giandomenico mi guarda, mi sorride e mi dice – Dà, facciamo una cosa, io vado a pranzare, oggi, a casa con la mia famiglia. Ho voglia di stare un po’ con Elisabetta e Giovanni. Ci vediamo alle tre, puntuali, e registriamo lo spot. Poi alle cinque registriamo la trasmissione. Mi passi a prendere tu? –. Eccola l’immagine, trovata, e subito.
- Passo a prenderti io, certo. Poco prima delle tre. E dai un abbraccio alla tua famiglia da parte mia”.
Ha scritto, pochi giorni addietro su questo sito, Pietro Baiamonte: “Giandomenico deve vincere perché non è un politico”. Carissimo Pietro, che dire? Giandomenico ha perduto e questo è innegabile. Ma non per questo, sia chiaro, adesso è un politico. Mi dispiace, e mi dispiace davvero molto. E il dispiacere, lo sai bene, è profondo, è simile al tuo.Giandomenico, è vero, ha perduto, ma non perché non è un politico. Giandomenico ha perduto, semplicemente, perché è, prima di tutto, una persona perbene. Come te.