LA GLORIA DEL FARAONE E I BISOGNI DEI SICILIANI di Giovanni di Girgenti

L’annuncio non lascia affatto tranquilli: tra un anno aprirà il cantiere per la costruzione del ponte sullo stretto. Ci eravamo illusi che il buon senso prevalesse in chi governa il nostro paese e invece dopo un opportuno stop dato dal governo Prodi, adesso Berlusconi riavvia la procedura per la sua costruzione.
Noi siamo decisamente contrari all’opera e non per ragioni ideologiche o ecologiche.
Siamo contrari per il suo carattere ‘faraonico’, nel senso stretto del termine: un’opera da Faraoni, fatta cioé più per celebrare il commitente che per  la qualità della vita dei cittadini.
Le piramidi, come è noto, erano le sepolture dei faraoni, servivano a garantire loro condizioni ottimali nell’aldilà e prestigio alla memoria.
Il ponte sullo stretto ha caratteristiche simili: non a seppellire il faraone di oggi (c’è già ad Arcore un mausoleo alla bisogna),  ma ad eternarlo in gloria, ragione nobile, per la cui conquista può risultare svilente l’uso di una così ingente quantità di soldi pubblici e privati.
Si dice che l’opera porterà lavoro per tanti anni nelle due regioni interessate: anche la costruzione delle piramidi dava occasione di occupazione di tante persone nell’antico Egitto, ma non cambiava le condizioni di vita delle persone comuni né la qualita’ della vita delle città.
Ed è questo il punto decisivo. Non ci piace quest’opera perché comporta il sacrificio di tante altre iniziative infrastrutturali che sono prioritarie: strade, ferrovie, scuole, ospedali, porti in Sicilia e in Calabria hanno standard non europei e condizionano la qualità della vita di tutti i giorni molto di più che la necessità attuale di un traghettamento tra le due sponde dello stretto. E non si dica che l’uno non esclude le altre: in tempi di scarsità di risorse finanziarie va deciso politicamente il campo delle priorità e il ponte sullo stretto non è tra queste.
C’è anche un’altra ragione che ci spinge ad opporci, nelle condizioni attuali, alla costruzione del ponte. Perché ci pare una scorciatoia illusoria nella lotta alla arretratezza meridionale. L’abbiamo già vissuta negli anni sessanta, con la costruzione di quelle che poi furono chiamate le ‘cattedrali nel deserto’ e cioè  i poli industriali, per lo più chimici, che furono insediati nelle province siciliane con l’idea che a partire da essi si potesse irradiare lo sviluppo nel resto del territorio. Sappiamo come è finita quella storia. I poli hanno desertificato il nostro territorio, diminuendo complessivamente il numero degli occupati, sottraendo territorio alla nostra agricoltura e salute a noi e ai nostri figli.
Lo sviluppo del sud o si innesta sulle vocazioni del nostro territorio o  non decolla: non ci sono volani miracolosi, il ponte sullo stretto non lo è. Capisco che per una classe dirigente, come quella oggi dominante, che non vuole modificare la struttura di comando interna alla società meridionale, che non si pone obbiettivi di medio-lungo periodo, che vuole portare all’incasso immediato la condizione di potere che si ritrova, sia più facile concentrare  in un’opera e in un appalto le risorse disponibili piuttosto che finalizzarle in tanti progetti di risanamanto e sviluppo la cui realizzazione comporterebbe la necessità di fare i conti con i nodi sociali, i tanti privilegi e le intermediazioni dissipative e criminali che bloccano l’ammodernamento e lo sviluppo del sud.
Questo è il punto: il ponte sullo stretto va combattuto non in nome dei pur rispettabili tragitti migratori di uccelli protetti o di un’estetica arcaicizzante, ma  perché contiene in sè la rinuncia a far crescere il sud, l’abdicazione rispetto ad un’ipotesi di crescita autocentrata, il privilegiamento degli interessi di pochi fortissimi contro gli interessi diffusi oggi nello spazio meridionale e domani nel tempo generazionale.

 

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