QUANDO I CLANDESTINI ERAVAMO NOI di Teresa Fiore*
Submitted by Suddovest on Sun, 25/05/2008 - 10:26
L’Italia altrove e gli altrove in Italia: Cortocircuiti memoriali tra emigrazione e immigrazione clandestina nel racconto Il lungo viaggio di Leonardo Sciascia e nel suo adattamento televisivo per la RAI di Alessandro Blasetti **
[img:1 align=float_left title=none] In questa fase di inasprimento dell’opinione pubblica e delle istituzioni contro gli immigrati illegali, una riflessione in prospettiva storica su questioni relative alla clandestinità sembra necessaria per ridimensionare il ruolo dell’Italia nel complesso scenario delle migrazioni internazionali. Se spesso ci si richiama, giustamente, all’esigenza di non dimenticarci di “quando gli albanesi eravamo noi”, è altrettanto importante ricordare che non solo siamo emigrati, ma lo abbiamo fatto anche da clandestini. Nella fase dei grandi esodi, gli italiani hanno passato le montagne e si sono imbarcati sulle navi per l’estero senza documenti e con l’aiuto di individui e reti sotterranee intenti a eludere i controlli, creando giri d’affari che aprivano nuove opportunità di vita, ma senza nessuna garanzia per l’incolumità della gente in fuga (penso qui al capitolo Angeli caduti al passo del Diavolo: i nostri clandestini via in massa oltre le Alpi e gli oceani nel libro L’orda di Gian Antonio Stella). E anche oggi gli italiani tentano la fortuna in altri luoghi sfuggendo ai canali ufficiali, come indica l’articolo di Maria Luisa Gentileschi Il ritorno dell’emigrato italiano nel Rapporto italiano nel mondo 2007 della Fondazione Migrantes, in cui si rilevano le permanenze di italiani negli Stati Uniti dopo la scadenza del visto turistico: nella sola città di New York sono pari a circa 50.000 l’anno, 1/7 del totale delle presenze legali, valore che piazza l’Italia al secondo posto, dopo l’Ecuador, nella lista dei paesi a maggiore flusso clandestino sul territorio locale. Per un popolo quale quello italiano che è sempre stato altrove come emigrato e che oggi è meta di immigrati da tanti altrove, è quindi utile indagare sulle modalità con cui si emigrava e in alcuni casi si emigra, vale a dire con soluzioni che paradossalmente ricordano quelle di chi oggi arriva sulle nostre coste. E mentre la retorica ufficiale, sostenuta dai mass media, produce facili semplificazioni volte a stabilire e regolamentare l’esclusione del clandestino, omettendo spesso di distinguere tra i viaggi per ragioni economiche e le fughe per questioni politiche, la letteratura, come spesso accade, produce dei circuiti memoriali inaspettati, aprendo scenari di coincidenze e riverberi che sfaldano l’apparente graniticità del giudizio corrente e indicano spiragli di riflessione contro-corrente. Un’occasione per definire percorsi di analisi più consapevoli su questi temi viene offerta da un racconto di Leonardo Sciascia, Il lungo viaggio, adattato per lo schermo da Alessandro Blasetti in una serie RAI, intitolata Storie dell’emigrazione, che include anche un’intervista con lo scrittore siciliano.
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L’El Dorado a casa propria: il racconto Il lungo viaggio di Sciascia
Contenuto ne Il mare colore del vino, una raccolta di racconti pubblicata nel 1973, che accorpa testi già apparsi su giornali, riviste e altre antologie fra il 1959 e il 1972, Il lungo viaggio racchiude in sé gli elementi dello Sciascia più noto – suspense, tensioni sociali, squarci di vita locale, ironia – e mescola sapientemente il genere giallo e quello storico, in un racconto dalla «perfetta … misura e … ritmo» che contiene un’«ironica pietas», come ha scritto Giuseppe Traina nel suo volume Leonardo Sciascia. Ancora una volta, lo scrittore racalmutese dimostra un sapiente uso della Sicilia come metafora di eventi storici ben più ampi dell’isola. I protagonisti del racconto sono degli emigrati intenzionalmente anonimi, simbolo del popolo siciliano e delle masse subalterne più in generale: nel tentativo di raggiungere l’America, e in particolare Trenton, «Nugioirsi», vendono tutti i loro averi e si affidano a quello che oggi chiameremmo uno scafista, un certo Sig. Melfa, astuto e aggressivo «impresario» del traffico umano. Gli emigranti lasciano dietro di sé una terra definita come «l’arida plaga del feudo», per raggiungere la terra dei sogni, spazio di abbondanza e luce. Il potere delle immagini create dai racconti sull’America dei parenti all’estero e degli emigrati di ritorno o in visita fa procedere il racconto in una direzione inattesa. Durante il viaggio, gli emigranti intravedono la terra paradisiaca che bramano: dall’imbarcazione le luci delle città costiere degli Stati Uniti brillano nella notte raddolcita dalla brezza. Una volta arrivati, l’ambiente circostante gli appare simile a quello di casa (i canti dei venditori di strada, le dimensioni delle vie), ma il potere dell’immaginazione è talmente forte che persino le cose a loro familiari s’ingrandiscono o scompaiono, proprio perché vengono guardate attraverso il filtro defamiliarizzante che si adatta alla loro idea mitica dell’America. Persino quando leggono sui cartelli stradali i nomi di paesini locali quali Santa Croce Camerina, persino quando scambiano due parole in italiano con un abitante del luogo al volante di una FIAT 500, e persino quando quest’uomo legittimamente li manda al diavolo in risposta alla loro richiesta di informazioni su come raggiungere Trenton, gli emigranti negano la realtà dei fatti. Solo attraverso i ricordi, uno di loro si rende conto che Santa Croce Camerina è un paesino della costa siciliana dove suo padre tanti anni prima aveva trovato lavoro durante una brutta annata nelle campagne dell’interno. Solo a quel punto tutti quanti si rendono conto che, dopo undici lunghi giorni di viaggio, sono sbarcati in Sicilia!
Nell’alternare spazi reali e immaginari, e nel paradossale collasso di entrambi alla fine, Sciascia denuncia apertamente il traffico umano illegale che si approfitta dell’ingenuità non congenita, ma storica – determinata cioè dalla negazione dell’accesso a risorse e diritti – dei contadini ignoranti, il cui intenso senso di rivalsa contro l’ingiustizia del mondo offusca una reale valutazione delle cose. La visione poetica di un’America che dopo tutto è casa loro, il senso del fallimento alla fine del viaggio e del racconto e lo sfruttamento del sistema padronale sono al tempo stesso fatti specifici in circostanze storiche, ma anche elementi di una condizione universale di esclusione dalla Storia, di cui la Sicilia si fa appunto metafora. Il lungo viaggio dei protagonisti di Sciascia, mutatis mutandis, potrebbe infatti essere quello degli immigrati di oggi che pagano prezzi altissimi per attraversare il Mediterraneo in condizioni rischiose, spinti dal bisogno e attirati dal moderno El Dorado dell’Europa.
Affidandosi ad una scrittura piana nel suo fluire, ma densa nella scelta lessicale, caratterizzata dalla giusta dose di ibridazione linguistica tra inglese e italiano e da incisive sequenze nominali asindetiche in cui la mancanza di segni di interpunzione crea un allargamento dell’immagine per accumulo di dettagli, Sciascia opera intelligentemente su un doppio livello di spaesamento. Da un lato, gli emigranti vedono come diverso ciò che conoscono a fondo, dall’altro vedono come familiare ciò che sono convinti sia distante dal loro mondo. I due piani si sovrappongono, svelando l’ingannevolezza della convizione (i miti, le dicerie, la pressione esterna) e dell’auto-convinzione (il desiderio del riscatto): sul piano narrativo-lessicale, lo sdoppiamento è tutto giocato sulla visione. Il racconto è costruito sull’opposizione buio-luce, dicotomia che rientra nell’ambito della vista, e cioè della sfera sensoriale che solitamente garantisce il senso dell’orientamento, ma che qui produce un miraggio: l’altrove diventa perciò casa propria, dopo che casa propria per un fuggevole momento è stata il desiderato altrove. Di conseguenza, nella scena finale dello sbarco in Sicilia, l’effetto cognitivo svela l’insidiosa natura del mito da un punto di vista culturale e induce a condannare, sulla scia di imprevisti echi contemporanei, i meccanismi socio-economici che ne traggono profitto spudoratamente. Per una coincidenza puramente casuale che Sciascia non avrebbe mai potuto prevedere, proprio a largo dello stesso tratto di costa tra Santa Croce Camerina e Scoglitti si registrò nel settembre del 2002 lo sbarco di un gruppo di immigrati provenienti dall’Africa con un barcone guidato da uno scafista che poi tentò la fuga verso Gela (per una lista delle tragedie legate ai “viaggi della speranza”, che proprio tra il 2001 e il 2002 si spostano dalla costa adriatica su quella siciliana meridionale, si veda www.repubblica.it/2004/a/sezioni/cronaca/clandestini/cronotra/cronotra.html ). Ma al di là del dato aneddotico, resta la precisa descrizione di un fenomeno ben troppo noto, che è diventato, anche se erroneamente, sinonimo di immigrazione in Italia oggi. In modo indiretto, il racconto suggerisce dunque nuove forme empatiche di percezione dell’immigrazione attraverso quelle dell’emigrazione e, a suo modo, getta la basi per un ripensamento del rapporto tra “noi” e “loro,” alla luce della somiglianza di certi percorsi di fuga.
Il Mediterraneo cimitero dei migranti: Il racconto di Sciascia adattato per la RAI e una sua intervista con Blasetti
Nel 1972, Alessandro Blasetti, noto e notoriamente discusso regista italiano attivo sin dall’epoca fascista, si occupa di un’interessante serie televisiva prodotta da e per la RAI, intitolata Storie dell’emigrazione, che in sei puntate narra l’epopea degli italiani nel mondo attraverso interviste, documentari originali e riprese ad hoc. La prima puntata contiene un breve adattamento del testo di Sciascia per il piccolo schermo, per la regia dello stesso Blasetti (per un più recente adattamento del racconto si veda il film Oltremare, ma non è l’America di Nello Correale del 1998). Il cortometraggio, di soli dieci minuti, a parte qualche passaggio rilevante in termini di composizione (la scena della partenza sugli scogli è di vaga ispirazione “neorealista” viscontiana), non è di particolare pregio stilistico da un punto di vista strettamente cinematografico, anche perchè appare realizzato proprio a scopo illustrativo, e cioè come resa visiva del racconto di Sciascia basata su scene recitate e commentate da una statica voce fuori campo. Sul piano narrativo, l’episodio riprende fedelmente la storia finora analizzata, con una piccola variante alla fine: attraverso una ripresa a distanza sulla spiaggia, Blasetti mostra l’arrivo della camionetta della polizia locale che è intenta a capire se gli sbarcati siano dei contrabbandieri arrivati col «cavallo marino», quando in realtà gli emigranti sono stati, loro stessi, merce di contrabbando. Il finale tinge di comico quello sciasciano, tragicomico e ben più greve, in cui i due emigranti andati in perlustrazione sul luogo, ormai consapevoli della beffa, si siedono lungo il ciglio della strada, stremati della terribile scoperta. E al loro eloquente silenzio di stupore solitario fa da controcanto, la folgorante frase finale del narratore: «non c’era fretta di portare agli altri la notizia che erano sbarcati in Sicilia».
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Lo spezzone più interessante di questa puntata del programma di Blasetti include un’intervista allo stesso Sciascia, che, illustrando la genesi del racconto, spiega di essersi ispirato a un fatto vero del secondo dopoguerra, appreso di persona, in cui uno scafista aveva appunto beffato un gruppo di siciliani desiderosi di partire per l’America. L’aspetto più inquietante della conversazione tra lo scrittore e il regista è il riferimento di Sciascia al fatto, non troppo raro nella fase storica del primo dopoguerra, che i trafficanti di persone arrivavano a gettare in mare gli emigranti di fronte al rischio di controlli allo sbarco, destinandoli a essere inghiottiti da un Mediterraneo cimitero dei migranti già allora. Riferendosi a questa pratica, Sciascia conclude: «È una cosa che si è sempre detta in Sicilia» perchè si sapeva che questo o «quel tale si è arricchito buttando a mare gli emigranti». Di fronte a questo finale tragico che si aggiungeva alla truffa, il destino dei protagonisti de Il lungo viaggio appare per contrasto tollerabile.
A questa amara riflessione si aggiunge un aneddoto di gusto spiccatamente sciasciano, nel quale lo scrittore spiega un aspetto curioso legato alla vicenda cui si rifà il racconto: lo scafista, una volta arrestato, durante il processo rimase estremamente colpito dalla tesi appassionata che il suo avvocato elaborò a sua difesa, conquistato a sua volta dalla fantasiosa truffa dell’assistito. Il condannato decise pertanto di scrivere una lettera dal carcere al suo legale, lamentando il fatto che non si fossero conosciuti prima, perché altrimenti gli avrebbe chiesto di fargli da braccio destro nei suoi loschi affari!
Il problematico rapporto tra finzione e realtà, tra percezione e verità concreta, che è la base teorica del racconto Il lungo viaggio si ripropone in questo aneddoto che gli fa da premessa, offrendo una considerazione indiretta sul potere del convincimento retorico, della parola in genere. Come già nel racconto, la figura dello scafista, un siciliano che froda i suoi conterranei, rappresenta un elemento di illegalità interno al sistema (tema già presente, seppur geograficamente spostato al nord, nel film di Pietro Germi Il cammino della speranza del 1950). Lo sfruttamento dei derelitti è una realtà chiave anche nel flusso immigratorio odierno, un traffico umano che in alcuni casi vede forme di connivenza tra italiani e stranieri (si veda per esempio il romanzo Il giro di boa di Andrea Camilleri del 2003) e che smentisce la classica percezione degli italiani come estranei alla clandestinità. Nella prospettiva diacronica, l’intervista a Sciascia, così come il suo racconto, getta luce su un’esperienza estremamente attuale, che ripercorre con un senso di anticipazione stupefacente le vicende degli immigrati di oggi e impone un percorso critico di spaesamento nel riconoscere “noi” in “loro.” Nel racconto di Sciascia il mare è uno spazio sconosciuto e temibile per i siciliani in viaggio, un tema spesso trattato dallo scrittore di Racalmuto, che, nel Rapporto sulle coste siciliane incluso ne La corda pazza, scrive come il mare per la Sicilia sia «essenza della fatalità [...] elemento di una introspettata nemesi nella storia dell’umile che vuole salire e sempre ricade al di sotto del punto di partenza». E se la Sicilia è metafora del mondo, secondo la più emblematica definizione elaborata da Sciascia, allora il sapore triste del racconto Il lungo viaggio diventa metafora esso stesso, facendosi specchio di tutta un’esperienza di sofferenza, dell’ironia della vita e dell’inevitabile spaesamento prodotto dal viaggio, persino quello “a casa nostra”.
(*)Teresa Fiore, agrigentina, è docente universitaria di Italiano negli Stati Uniti d'America
(**) Questo scritto fa parte di un saggio intitolato Lunghi viaggi verso ‘Lamerica’ a casa: straniamento e identità nelle storie di migrazione italiana apparso in Annali d’Italianistica24, 2006 (numero speciale sull’identità nazionale), pp. 87-106.
Si ringrazia la rivista per avere concesso la riproduzione del testo. Per maggiori informazioni relative alla rivista, si veda: www.ibiblio.org/annali
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