OSTRACISMI di Vincenzo Campo

Quando, da ragazzo, sentivo parlare di razzismo, quando sentivo delle discriminazioni che subivano gli afro americani nei civilissimi Stati uniti, non mi capacitavo, non capivo. Frequentavo attivamente un gruppo giovanile di Azione cattolica e avevo interiorizzato i principi d’uguaglianza.

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Quando poi, ora è quarant’anni ad aprile, ammazzarono Martin Luther King, io avevo diciassette anni, rimasi allibito: proprio non intendevo come si fosse potuto ammazzare un uomo, deliberatamente e a sangue freddo, perché negro (allora si diceva così), e perché, negro, propugnava e propagandava idee egualitarie.
Mi avevano insegnato, e mi pareva che quelli che me l’avevano insegnato ci credessero davvero, che tutti gli uomini, ma proprio tutti: bianchi, neri, gialli, olivastri, col naso camuso, con le gambe ricurve, glabri o pelosi, belli, brutti, sporchi, poveri, ricchi, colti e ignoranti, tutti-tutti e nessuno escluso, erano e sono uguali; addirittura mi avevano insegnato che gli uomini sono molto di più che uguali e addirittura fratelli; fratelli in Cristo, in quel Cristo che, figlio di Dio, s’era fatto uomo ed era morto di Croce proprio per la salvezza dei suoi fratelli. Tutti i suoi fratelli.
Era perciò incomprensibile che nella cristianissima America fosse diffuso un sentimento antirazziale e che s’arrivasse ad ammazzare in quel modo; per di più in America e non, che ne so, in India o in Nuova Caledonia; proprio nell’America che era modello di vita per noi giovani europei, addirittura la prefigurazione concreta di quello che sarebbe stato il nostro futuro prossimo con le televisioni a più canali, il rock and roll, la Coca cola, simbolo stesso della libertà e del progresso.
Perciò non capivo. E il mio sentimento, peraltro, era largamente diffuso e, direi, generalizzato e condiviso da chiunque, indipendentemente dal censo, dal grado culturale e dalle idee politiche, qui da noi. Nessuno era razzista e tutti esecravano il razzismo e quel gesto estremo di razzismo.
Pensavo, ritenevo –tutti, io credo, siamo portati a generalizzare il nostro punto di vista- che questo avveniva perché in Italia siamo tutti cattolici e tutti perciò avevamo interiorizzato i principi del cristianesimo.
Mi sono ricreduto, nel tempo, e ho perfino capito che molti di quelli che m’insegnavano i principi non solo non li praticavano, ma non si sforzavano neppure di farlo e perciò non li credevano principi; e ho capito pure che la ragione dell’inesistenza del razzismo dalle nostre parti non era dovuta, come ingenuamente credevo al nostro essere cristiani, più cristiani che negli Stati uniti.
La ragione era veramente banale e non si dovevano scomodare né fedi né credi per trovarla, perché stava semplicemente nel fatto che qui, a differenza che in America, eravamo tutti uguali, tutti della stessa etnia senza la benché minima possibilità di confronto; il diverso non c’era, non esisteva e dovevamo solo immaginarlo; e non è detto che l’immaginato corrisponda poi al reale...
Poi, da un po’ di tempo a questa parte, le cose sono cambiate e hanno cominciato ad arrivare i diversi anche da noi; li vediamo, li individuiamo subito come diversi e li identifichiamo non già per quello che sono e cioè semplicemente uomini, ma per l’etnia alla quale appartengono; per noi che li vediamo, li incontriamo sono prima neri d’Africa, angolani, ivoriani, berberi, magrebini, arabi, pakistani, albanesi, romeni e, come se non bastasse pure rom, e poi, forse, sono anche uomini. Come se non bastasse, poi, per mille ragioni, prime fra tutte quelle economiche e quelle identitarie, questi stranieri finiscono con lo stare insieme fra loro e perciò fare gruppi e presentarsi a noi come tali; stanno dove possono: qui ad Agrigento prevalentemente nei bassi del Rabbato, di San Michele, della Badiola, insomma del Centro storico in generale, e cioè nei soli posti cioè in cui trovano costi d’affitto che, forse anche elevati in relazione a quello che viene loro offerto, possono tuttavia permettersi. Finiscono col fare comunità e accentuare la loro identità.
Una decina d’anni fa, vivevo ancora nel Centro storico, un mio vicino, don Stefano, mi chiese di firmargli una petizione al sindaco per “cacciare i marocchini dal quartiere”, intendendo per “marocchini” anche neri d’Africa; quando gliene chiesi la ragione, mi spiegò che i bambini della sua famiglia e di altri vicini suoi di casa, nel vederli, la sera, specialmente con la scarsa illuminazione del vicolo Gozza e delle zone limitrofe, si spaventavano; avrei voluto dirgli che avrei voluto preparare una petizione per cacciare dal vicolo la sua famiglia chiassosa e litigiosa, i figli dei suoi figli sempre piagnoni e urlanti, sua nuora e sua moglie continuamente impegnate in battibecchi gridati da un balcone a un altro, ma non ne ho avuto il coraggio e mi sono limitato a dirgli che nessuno dei miei figli si spaventava.
Ecco. Questa è la risposta facile ad un problema che pure c’è ed esiste, la soluzione alla don Stefano: cacciamoli. Questa è casa nostra e loro hanno diritto di starci se noi lo vogliamo; se no, se non li vogliamo, se ne devono andare.
A Napoli un gruppo di donstefani esaltati e pare pure guidati e armati da qualche camorrista, ha sgomberato un campo di nomadi e pure dato fuoco a qualche baracca; un po’ in tutta l’Italia del Nord ad arrivare, almeno per ora, fino alla Capitale, sindaci di questa Repubblica democratica che dichiara nella sua Carta fondamentale di non discriminare nessuno hanno adottato o stanno adottando provvedimenti donstefaneschi per “restituire” le “loro” città ai nativi.
Non voglio dire che il problema non c’è; voglio dire che, innanzi tutto, non credo si ponga nei termini drammatici in cui lo si pone; voglio dire che è ingrandito e ingigantito da una stampa che cerca audience e notizie da urlare; voglio dire che il problema, e quello più grave, è quello dei cosiddetti marocchini costretti prima a venire qui nei modi in cui sono venuti e poi a stare qui nelle condizioni in cui stanno; ma voglio dire principalmente che il problema non può risolversi assecondando il pregiudizio del mio vicino di casa e con le soluzioni che una mente piccola e poco elastica come la sua è capace di pensare.
Il problema è complessivo e di tutti e va affrontato e risolto da tutti, in maniera organica e complessiva, a partire dai bisogni di queste persone, che, quand’anche non fossero nostri fratelli, sono comunque persone. Come noi.

 

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