HAMAS, LA TORTURA E L'EREDITA' DI CESARE BECCARIA di Pepi Burgio
Cosa ne è stato della tradizione giuridica dell'illuminismo italiano? In Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, opera accolta in Francia dai filosophes con grande favore dopo un'iniziale perplessità, è contenuta una decisa ripulsa della pratica della tortura, argomentata con rigorosa scansione logica prima ancora che etica. Essa si è successivamente innervata nella coscienza civile europea al pari, a giudizio di Franco Venturi, "della scoperta di un nuovo mondo mentale". "Quest'abuso - ha scritto il grande giurista milanese - non dovrebbe esser tollerato nel decimottavo secolo".
Sul tema della tortura, largamente praticata dai terroristi di Hamas, praticata sia fisicamente che psicologicamente sugli ostaggi del pogrom del 7 ottobre, è apparso su Il Foglio di pochi giorni fa un lungo articolo di Giulio Meotti. Si tratta della presentazione di un saggio non ancora pubblicato in Italia del prolifico e controverso filosofo francese Michel Onfray, col titolo di L'autre collaboration. L'autore, da Meotti definito eclettico e inclassificabile, si era già chiesto retoricamente in un precedente saggio in cosa consisterebbe la propria identità qualora fosse stata privata della cultura ebraico-cristiana. Onfray, che ha rivendicato in numerose occasioni il proprio imprescindibile ateismo, si interroga sulle origini novecentesche dell'antisemitismo dei nostri giorni, contrassegnato da un diffuso sentimento di ostilità verso Israele da parte della cosiddetta sinistra radicale.
Padre nobile di tale tendenza è stato nientedimeno Jean Paul Sartre. Questi, in singolare sintonia con i Quaderni neri di Martin Heidegger, ha accusato gli ebrei di non possedere alcuna consistenza storica significativa; nonostante tremila anni di esistenza, aggiunge amaramente Onfray, che certo avrà notato quanto speculare sia l'antisemitismo del maître à penser francese a quello del filosofo tedesco, che nell'erranza ebraica ha scorto il destino riservato a un popolo privo di radicamento, di attaccamento al suolo. Anche Simone de Beauvoir ha voluto offrire un suo contributo, dando voce a penose afflizioni incredibilmente triviali: basta con le geremiadi, ovvero con le lamentele prolisse e importune che circonfondono la figura di Anna Frank. E se un filosofo come Gilles Deleuze, in ossequio alla tradizione di una certa sinistra francese, ha accolto in ginocchio Yasser Arafat, anche Michel Foucault non ha voluto essere da meno, riversando amore sui mullah iraniani che ravvisano nella cancellazione dello stato di Israele l'imperativo categorico, fondativo della propria identità.
L'elenco potrebbe continuare arricchendosi di altre personalità, ma a Onfray interessa soprattutto svolgere una duplice riflessione. La prima, relativa alla sistematica pratica della tortura da parte di Hamas, che fa sfoggio di crudeltà rappresentandola orribilmente attraverso la sadica esibizione della morti-ficazione degli ostaggi, a beneficio dei media di tutto il mondo; e la seconda, connessa alla prima, che coglie nel silenzio dei progressisti occidentali un chiaro segnale di impazzimento nichilista rivolto contro se stessi, secondo una tesi già sostenuta da diversi intellettuali tra i quali Federico Rampini.
Scegliendo di comprendere le ragioni della jihād islamica, e il conseguente, fisiologico ricorso alla tortura, alcuni settori di opinione pubblica orientata a sinistra hanno di fatto non solo obliato quanto sostenuto più di 250 anni fa da Beccaria - "La tortura non è creduta necessaria dalle leggi degli eserciti composti per la maggior parte dalla feccia delle nazioni, che sembrerebbero perciò doversene più di ogni altro ceto servire" - e, di recente, da Foucault in Sorvegliare e punire; ma inoltre impresso una notevole accelerazione alla fenomenologia suicidaria dell'occidente con le sue pulsioni di morte. "Non c'è bisogno di essere ebrei per soffrire di questa barbarie, bisogna semplicemente amare la vita, a dispetto di chi adora la morte". Così l'Onfray di L'autre collaboration, testo che verosimilmente susciterà anche in Italia un vespaio di polemiche.
Tuttavia la sua cifra drammatica, stando al resoconto che ne ha fatto Giulio Meotti, tecnicamente non si vestirà di pathos tragico qualora venissero omesse una forte traccia emozionale, un riverbero doloroso e una riflessione profonda e misericordiosa rivolta alle decine di migliaia di palestinesi uccisi nell'inferno di Gaza.