NEL LABIRINTO DELL'EROE di Cinzia Portacci
Nel 2016 non avevo ancora intrapreso gli studi antropologici. Ricordo l’invito a cena da amici e di essermi ritrovata accanto a uno degli eredi di millenaria dinastia friulana. Nell’ultimo quarto del XIX secolo il prozio era stato un esploratore che col Winchester in mano e visionarie attrezzature da campeggio ideate dai F.lli Vuitton si era addentrato nel Congo sconosciuto, portando la pace tra le tribù del medio Congo e libertà per gli schiavi. La fierezza che il pronipote cadetto manifestava per l’avo Pietro Savorgnan di Brazzà restava discreta, affabulatoria, avvolta di filantropia umanista.
Nel racconto l’erede aggiungeva di essersi recato a Brazzaville, non disse per quale motivo, ma colpiva il fatto che i cittadini di Brazzaville ci tenessero a farsi foto con i discendenti, quasi lo ricordassero come un pacificatore, un profeta, un santo e non il francese che aprì la strada alla colonizzazione dell’Africa equatoriale.
Mi chiesi se quel Brazzà non fosse all’origine di qualche culto sincretico africano. In verità nel mio viaggio intrapreso a ritroso non potevo prescindere dalla sua biografia, né dalla bibliografia e nemmeno dalla storiografia del periodo coloniale francese. Si, perché questo eroe di antichissimo lignaggio, cresciuto nella Roma pontificia, nato dal conte Ascanio Savorgnan, nobile di idee liberali, e dalla marchesa romana Giacinta Simonetti, educato alla scuola gesuita, a tredici anni lasciava la famiglia e il paese pur di arruolarsi nella marina francese.
Era dunque italiano, naturalizzato francese (1874), militare di professione, esploratore per vocazione, ma nessuna traccia delle sue imprese nei libri di storia italiani e francesi. Somigliava a un personaggio da romanzo, tanto da chiedermi se fosse reale questo ‘Rocacambo! il padre degli schiavi’, come era chiamato dagli indigeni; se fosse stato da sempre convinto antischiavista e soprattutto un antropologo, come lo vorrebbe parte della progenie. Questo input divenne il focus della tesi.
A voler considerare come formativi i presupposti familiari e culturali in cui ebbe i natali, Pietro Brazzà visse realizzando il sogno di scoprire un mondo sconosciuto. Dal 1874 al 1905 ha percorso l’Africa a piedi, spesso scalzi, in canoa, a dorso di mulo. Tranne alcuni periodi di discontinuità in Europa, di fatto per quasi ventun anni coinvolse famiglia, amici, colleghi della marina e istituzioni francesi, e naturalmente la pubblica opinione.
Il mio studio non riesce proprio a seguire una struttura lineare, ma neppure procede a macchia di leopardo. Parte invece da una circonferenza del ‘mondo’ sezionata in Africa, fiumi, Europa, famiglia… in cui il personaggio dell’esploratore resta al centro. L’opinione pubblica, favorevole o sfavorevole, con o senza echi nazionalisti e colonialisti è una sezione del cerchio. I massoni di ieri e di oggi, compresi quelli africani, sono un’altra. Le società geografiche o i compagni di viaggio sono un’altra sezione, e così via.
Nelle sue lunghissime lettere, questo moderno Odìsseo squadernava al politico di riferimento, l’ammiraglio Louis Raymond de Montaignac o il ministro massone Jules Ferry, i rischi di cui si faceva carico in questo suo viaggio verso l’ignoto. Dei vantaggi economici che sarebbero derivati dalle spedizioni esplorative sia alla Francia che alla popolazione indigena. Era così facile restare ipnotizzati dalle sue storie come da quelle di H.M. Stanley, l’eterno rivale.
Se ‘Ognuno ha tante storie…’ questa parte dell’Africa subsahariana ne aveva già una tutta sua di storia, fatta non solo di schiavitù o razzie, ma di contatti, di commercio, di scambi, con quella foresta che mastica e sputa. Impenetrabile corpo vivente, intrisa di arterie d’acqua, cascate, rapide, laghi e altipiani, quella selva incarnava da secoli il sogno, l’arma, il ‘mezzo’ che impediva i guerrieri islamici provenienti dalla regione dei grandi laghi diretti verso il sud. Di una parte dei misteri di questa, come dei suoi abitanti, Brazzà fece tesoro, e forse senza mai veramente comprenderli, e soprattutto senza raccontare fino in fondo il proprio lato oscuro. Quanto a me, sin dall’inizio gli cercavo un difetto.
Brazzà è inizialmente spinto solo da autentico sentimento di scoperta geografica per il percorso dell’Ogooué; dal desiderio di fondarvi avamposti commerciali al fine di incoraggiare vie di traffico tra l’interno e l’Atlantico; sino a fondare una colonia francese.
Queste sue missioni ricognitive finirono per acquisire in modo esponenziale una connotazione geopolitica mondiale, unitamente a una ‘cavalleresca’ ambizione determinata dalla sfida con Stanley di arrivare per primo, in parte dal dover sempre dimostrare di appartenere alla III Repubblica francese. Portatore e portatrice ambedue di quei valori storici di libertà, uguaglianza e fraternità, con la sola eccezione dei Droits de l’homme in quello che è noto alla storia come Scramble.
Assunti in questi termini, i diari di viaggio, le lettere, gli archivi coloniali costituiscono una vera e propria manna di dati sul sistema storico-politico dell’epoca, sul sistema eco-biologico della foresta, sugli usi e costumi tribali, sulle forme di amministrazione coloniale in Congo. Da questi si potrebbero trarre molte connessioni sulla disconnessione europea nel leggere e osservare l’Altro.
Solo dopo aver declinato la sua vita come una biografia per competenze, mi sono resa conto di aver invece aver raccontato una serie di riti di passaggio: lo sradicamento, l’ingresso nella marina francese, la naturalizzazione, le esplorazioni, la sfida con Stanley e il re Belga, le Traité Brazzà-Makoko (1882), il matrimonio, l’ingresso nella loggia massonica dell’Alsace-Lorraine (1888), la fase di commissario delle colonie, la rimozione dal ruolo per volere delle lobbie, il ritiro volontario in Algeri, l’inchiesta (1905) sullo scandalo del caucciù dalla quale non fece ritorno, morendo a Dakar, si dice, perché avvelenato.
E dopo aver inserito gli ‘oggetti’ delle spedizioni in entrata e in uscita, ho trattato la storia delle collezioni botaniche, artistiche e artigianali rese note solo parzialmente e una sola volta al pubblico francese. Illustrando il destino traumatico di questi oggetti sradicati dal loro contesto, ho trattato lo scambio di doni, ivi incluso il Traité Brazzà-Makoko, leggendo questo alla stregua di un oggetto-dono. Per esso il Makoko aveva ‘rinunciato alla propria sovranità per mettersi sotto la protezione della Francia’, e quale sovrano sano di mente lo farebbe se non vi fossero evidenti clausole surrettizie, contestate dagli storici e antropologi africanisti tanto europei quanto africani.
Quello che ho infine descritto nell’ultimo capitolo, non è altro che un mito nascente che poi diventerà moderno. L’odissea Brazzà contiene tutti gli ingredienti del mito. Non siamo davanti a un fondatore di stati nel senso riferito dallo storico Robert Harms, anche perché uno stato, seppure non nazionale, esisteva già in Africa con l’antico regno del Kongo o del Makoko. Forse lo fu H. M. Stanley in favore del sovrano belga. Sicuramente il mercante di schiavi e di avorio Tippu Tip con il sultanato zanzibarese si avvicinano alle strutture politiche dei dittatori post-moderni e post-coloniali. Non Brazzà, che da questa prospettiva non solo non può essere considerato antropologo, come d’altro canto è pacifico che né un antropologo né un etnografo hanno per fine la fondazione di uno stato in terra di Altri.
In Nel labirinto dell’eroe si riassume l’atto di una tragedia antica che si costituisce in tragedia moderna, ché liberata la storia dai nomi dei suoi protagonisti si ritrovano tutti gli ingredienti del mito antico: l’economia, i passaggi economici, i passaggi politici celati, oscurati dalla costruzione poetica del mito e dalla forma religiosa che assume il Memoriale (massonico) Brazzà.
Siccome la tragedia è una forma di liturgia che conferma la verità del potere, questo personaggio potrebbe esprimere delle necessità al di là della ricerca scientifica, ossia la figura di un eroe eponimo, che è difficile da trovare. Al di là del personaggio storico, esso trasuda violenza, seguendo forse la lezione di Foucault, perché il bio-potere ha bisogno dei corpi, si fonda sui corpi.
Per questo ho trovato appassionante lo studio su Brazzà, per comprendere aspetti della realtà attuale circa l’esercizio del potere nelle ex colonie che, mi pare, vede gli attori dello scenario agire in forme ormai complementari: la sacralizzazione del cadavere sullo sfondo delle compagnie petrolifere; qui sta la modernità.
Tutta la “complessità” della mia riflessione finale sul fallimento del “colonialismo morbido” dell’Occidente (esproprio in cambio di pseudo diritti civili, in opposizione formale allo stile crudo della Cina) è sorretta da un apparato scientifico di dati storici, economici e biografici che fanno di questa ‘tesi’, spero, qualcosa di più.
Così la soggettività romantica dell’esploratore filantropo non ne esce né ridimensionata né esaltata, ma semplicemente oggettivata in una luce che rende la sua incoscienza e il suo ruolo, nella violenza della Storia, ancora più agghiaccianti.