QUEI VOCATIVI DI TROPPO IN WHITMAN E MELVILLE di Pepi Burgio

              Le interiezioni e i vocativi decisamente non erano apprezzati da Giorgio Manganelli poiché vedeva in essi gli espedienti un po’ affannati di una retorica pomposa. E non amava quindi Walt Whitman che del genere è il campione; e non serviva, se non a eccitarne l’inasprimento, ricordargli che ogni stagione si alimenta di una sua particolare eloquenza, e quindi nell’ ‘800…. Niente da fare, neanche a parlarne: “La poesia di Whitman fu nell’insieme uno dei tentativi più decisi e coerenti di conseguire l’arduo livello del pessimo e il meno arduo del risibile; che Whitman non ci sia riuscito è uno degli ilari misteri della letteratura”. Punto.

            Anche Melville in Moby Dick, ma in misura più sobria, decora l’eloquio maestoso del capitano Achab con “l’irritante fraternità dei vocativi” e con il “misticismo turistico esclamativo” tanto indigesto a Manganelli. “Oh vita! è in un’ora come questa, l’anima affranta e stretta a conoscenza, mentre le creature selvagge e incolte son costrette a sfamarsi… Oh, vita! e ora che io senta l’orrore in te latente! Ma non sono io! Fuori di me è l’orrore! E con il mite senso dell’umano in me, mi proverò tuttora a combattere voi truci, fantomatici tempi futuri! Sostenetemi, assistetemi, assicuratemi, oh influssi benedetti!”.

            Perché questi toni apocalittici, questo surplus di cadenze enfatiche che può disturbare la sensibilità di un lettore del nostro tempo? Nel peculiare cammino intrapreso per la costruzione dell’identità statunitense, vi è forse una risposta. Whitman, più che Melville, si sentiva vocato da urgenze genealogiche e coglieva, a giudizio di Harold Bloom, nel sangue versato copiosamente dagli “atleti, gli abbronzati ragazzotti delle praterie che al primo richiamo sono accorsi, a nord come al sud, per salvare la democrazia”, l’atto originario su cui si radica la spiritualità statunitense. E se in Moby Dick il “Dio assoluto” viene assunto esplicitamente come “il centro e la circonferenza di ogni democrazia”, nella voce del capitano Achab, per Bloom, è possibile rintracciare il richiamo “dell’istintiva spiritualità del Nuovo Mondo”. Achab è un “re Lear americano, nello stesso tempo democratico e tirannico, precristiano e postcristiano”. Rivendica l’odio tremendo da riversare su ciò che l’attrae, sfida una natura che finirà per divorarlo e, alla maniera tutta americana, dice ancora Bloom, con tracotanza giura: “Io colpirei il sole, se mi facesse offesa”.

            In parallelo a Melville, Whitman canta nelle Foglie d’erba l’epopea della democrazia americana nel suo farsi grande nazione secondo gli ideali di giustizia; e così come Melville ha invocato il “Dio democratico” e lo “Spirito dell’Uguaglianza”, egli avverte se stesso come un profeta che sa addossarsi il pesante fardello della coesione spirituale della nazione.

            Enzo Giachino, autore della bella prefazione einaudiana a Foglie d’erba, sostiene che, nonostante secondo Whitman vada riconosciuto grande valore alla poesia a lui precedente, essa gli appare tuttavia “feudale”; così come “feudali” sono coloro i quali non riconoscendo la portata identitaria, ontologica della democrazia, con l’assoluta particolarità dell’America, nulla hanno a che vedere. “Redento dalla democrazia, l’antico, eterno Adamo è degno di rientrare in un novello Eden, che non può essere che l’America. L’America ha raccolto tutti i lasciti del vecchio mondo feudale, glorie e miserie in fascio. Ma ha saputo purificarle con la democrazia e si presenta ora come una terra rinverginata. Adamo vi può avanzare fiducioso e prendere possesso dell’immenso dominio, per fecondarlo con il suo lavoro. Questa concezione giustifica il compito di profeta, di cicerone, che Whitman si è assunto”. L’America da lui cantata, aggiunge Giachino con un’immagine suggestiva, forse con qualche residuale tossina ideologica, “è un sogno, di un sogno ha la perfezione, di un sogno l’inganno”.

            Il fondamento storico, antropologico, che dà sostanza alla poetica di Whitman e Melville iscrivendola in uno scenario di concretezza e su cui si fonda il cosiddetto sogno americano, è stato messo in rilievo fra gli altri da John Walsh, importante storico del Jesus College di Oxford: “Il sistema della predicazione itinerante era straordinariamente appropriato alle condizioni della frontiera. L’ambiente stesso dava alla religione dei pionieri un carattere emotivo, primitivo, democratico e antigerarchico”.

La coscienza del carattere etico della funzione di scrittori, insieme all’avvertimento imperioso di plasmare, alla maniera di un moderno demiurgo, “l’evolversi della grande massa del paese” (Giachino), nonché la spontanea, immediata adozione di maniere espressive del proprio tempo, ci consentono di dire che quella di Whitman e di Melville, nonostante le interiezioni, i vocativi, i punti esclamativi e la tagliente causticità  di Manganelli, è grande poesia, grande scrittura.

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