DOVE L’AMERICA PRENDE FORMA di Pepi Burgio
"Per essere selvaggio lo era eccome”, dice di Queequeg Ismaele, l’io narrante di Moby Dick al capitolo X del romanzo di Herman Melville. Queequeg è già apparso qualche pagina prima: è un gigantesco ramponiere polinesiano di origini aristocratiche in cerca di un imbarco su una baleniera nell’isola di Nantucket. Ismaele, a Nantucket per lo stesso motivo, lo adocchia per la prima volta in una sordida locanda in cui l’oste gli propone di trascorrere la notte nello stesso letto del ramponiere poiché gli altri sono già occupati da alcuni marittimi. Ismaele d’istinto “aborre” l’offerta rimanendo però incuriosito dall’“aria contegnosa” del selvaggio: “un vero spettacolo; eppure cominciavo a sentirmi misteriosamente calamitato dalla sua persona.
E motivo del richiamo erano proprio quelle cose che avrebbero respinto i più”. A differenza dei marinai della scalmanata ciurma del Grampo di ritorno dalle Fiji, se ne sta per fatti suoi: “alto almeno sei piedi, con due spalle imponenti, aveva il torace che era una tura. Di rado ho visto un uomo così nerboruto. Il viso di un bruno scuro, bruciaticcio, rendeva per contrasto abbagliante il biancore dei denti; […] La voce denunciava all’istante l’uomo del sud e la statura mi faceva pensare a uno di quegli spilungoni dei monti Allegani, in Virginia”.
Prevalsa sull’attrazione il timore per la prospettiva di dormire assieme ad un selvaggio di tal fatta, per giunta, a detta dell’oste, in commercio di teste imbalsamate acquistate in Nuova Zelanda, alla fine, obtorto collo, Ismaele finirà per accettare la spinosa promiscuità, scartate le altre infelici soluzioni che l’oste cinicamente gli ammannisce.
Ad annunciare dapprincipio la mutata decisione di trascorrere la notte accanto al corpo possente di Queequeg, appeso ad una parete della locanda sta un’inquietante quadro a sequestrare l’attenzione di Ismaele: “un quadro invero lutulento, putre, piaccicoso, da portare all’insania un cuore inquieto”. Ismaele, puntualmente, forse inconsapevole, chi può saperlo, con “cuore inquieto” accoglierà il richiamo della tensione “insana”; che tramuta la “sublimità indefinita” dello “stregonesco” dipinto in una insopprimibile ed impotente contemplazione del mistero: “senza volerlo finivi per giurare a te stesso di scoprire il significato del mirifico dipinto. Di quando in quando balenava un’idea brillante ma, ahimè, illusoria: è il Mar Nero in burrasca a mezzanotte; è lo scontro sovrumano dei quattro elementi primari; è una landa devastata; è una scena invernale iperborea; è la rottura dei ghiacci che bloccano il corso del Tempo. Da ultimo però tutte queste fantasie capitolavano di fronte al misterioso non so che al centro del quadro. Una volta scoperto quello tutto il resto sarebbe stato chiaro. Ma, un momento: non ha una sia pur vaga somiglianza con un gigantesco pesce? col grande leviatano in carne e ossa?”.
Ciò detto, ad accrescere il turbamento già palpabile fin dal primo apparire di Queequeg, viene descritto subito dopo con accenti di rara tensione erotica, soprattutto per quel tempo, l’evolversi della relazione particolare fra il ramponiere, incarnazione dell’incanto seduttivo di una naturalità integrale, e Ismaele. Che, a esplicitare l’ambivalenza del tendere verso Queequeg, in quanto, al pari della visione del dipinto, l’iniziale repulsione si converte in alimento della curiosità e dell’attrazione, così si esprimerà: “Per quanto selvaggio e orribilmente deturpato in viso, per i miei gusti almeno, aveva tuttavia qualcosa di tutt’altro che sgradevole nei tratti”.
Cesare Pavese, che nel 1932 su La Cultura ha scritto un memorabile saggio avente per oggetto la poetica di Melville, pensa che ad ogni tentativo di ricercare, ad esempio, il perché della fascinazione esercitata dal male, “è riservata la fine del Capitano Ahab”.
Dopo le turbolente vicissitudini della prima notte di convivenza forzata con Queequeg, risoltesi peraltro per Ismaele nel migliore dei modi, questi dirà: “non ho mai dormito meglio in vita mia”. Il capitolo X del romanzo, dal titolo eloquente di Un amico del cuore, è forse quello che più esplicitamente riecheggia la passione d’amore, pare non corrisposta, di Melville per Nathaniel Hawthorne; Moby Dick, pubblicato nel 1851, cioè un anno dopo La lettera scarlatta, giudicato il capolavoro di Hawthorne, è dedicato al grande scrittore del Massachusetts.
Ismaele ormai considera Queequeg un amico del cuore ed accoglie alla fine la proposta di unirglisi nell’adorazione di un piccolo idolo. Il finale del capitolo dà vita ad una delle numerose preziosità disseminate nel romanzo con una combinazione sincera di fervori pulsionali, neanche tanto mascherati, e una sorta di sincretismo cristiano fondato su ragioni inoppugnabili: “Dopo cena, dopo un’altra chiacchierata e un’altra fumata in comune, ci ritirammo nella nostra stanza. […] Dopodiché si dedicò alle preghiere della sera, tirò fuori l’idolo e spostò il parafuoco di carta. Da certi segni e indizi mi parve di capire che ci teneva a che mi unissi a lui. […] Ero un buon cristiano, nato e cresciuto in seno all’infallibile Chiesa presbiteriana. Come potevo affiancare quell’idolatra selvaggio nell’adorare il suo pezzo di legno? Ma l’adorazione che cos’è, mi domandai? Ismael, non penserai che il Dio magnanimo del cielo e della terra, compresi pagani e compagnia bella possa essere geloso di un insignificante pezzo di legno nero? Impossibile! Ma l’adorazione che cos’è? Fare la volontà di Dio: ecco cos’è. E qual è la volontà di Dio? Fare al prossimo ciò che vorresti che il prossimo facesse a te: ecco cos’è. Ora, Queequeg è il prossimo mio. E cosa vorrei che Queequeg facesse a me? Ma affiancarmi nella mia particolare forma di adorazione presbiteriana. Di conseguenza dovrò affiancarlo nella sua; ergo, dovrò farmi idolatra. Così appiccai il fuoco ai trucioli; lo aiutai a drizzare l’innocente idoletto; insieme a Queequeg gli offrii galletta bruciata; gli feci due o tre salamelecchi; gli baciai il naso; dopodiché ci spogliammo e andammo a letto, in pace con la coscienza e con il mondo intero. Ma prima di addormentarci chiacchierammo ancora un po’.
Chissà perché, niente è meglio del letto per scambiarsi confidenze tra amici. È lì dicono, che marito e moglie rivelano gli aspetti più profondi della propria anima, e spesso le coppie anziane se ne stanno stese a parlare del passato fin quasi al mattino. Così io e Queequeg, coppia tenera e affiatata, nella luna di miele dei nostri cuori.”.
Si chiude così un capitolo emblematico di un’opera da alcuni definita il “grande romanzo americano”; e si definisce inoltre il lato di un triangolo ideale formato da altre due opere di genio: Foglie d’erba di Walt Whitman, pubblicato nel 1855, quattro anni dopo Moby Dick e, secondo molti La lettera scarlatta, mentre per altri Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, a comporre la trinità della identità letteraria, e non solo quella, statunitense. Ha scritto in proposito Harold Bloom: “Gli Stati Uniti non hanno un singolo capolavoro con cui identificarsi, ma questo ruolo potrebbe forse andare a un amalgama di tre opere”. E nomina quelle che appena sopra abbiamo ricordato.