CITATI, QUELL'INGANNEVOLE GIOCO DI FORME... di Pepi Burgio

Alla propria morte Citati aveva destinato poche righe, “lontana o vicina non mi dà timore”.  Scriveva: “Mi è stato concesso molto più di quanto avessi desiderato; e nessun pensiero è più lieve che immaginare la mia tomba, là, nel boschetto dei lecci, accanto al mio cane Puck, che da cucciolo credeva di essere un bambino”. Ciò che a Citati pareva intollerabile era piuttosto la morte dei suoi amici: “forse perché li amo”.

Fra questi, uno in particolare, Italo Calvino, col quale Citati soleva spartire la vista della marina della Riviera di Ponente e le chiacchierate “nei giardini ombreggiati dai pini”.

Ne La malattia dell’infinito, uno dei suoi libri più belli, Citati, che era legato a Calvino da un’affezione speciale, in questo modo ne ricorda gli ultimi tempi.

In questo modo un po’ curioso noi pensiamo di ripensare Citati, recentemente scomparso.

Poi sulla pineta scesero, troppo rapidamente, gli ultimi anni. Volgendo le spalle a qualsiasi idea generale, Calvino si accontentava di contemplare un’onda, un ciuffo d’erba nel giardino, un uccello che cantava. (…)

Forse – mi domandavo – non c’era più nulla e lui aveva silenziosamente cessato di esistere, senza che ce ne fossimo accorti. L’ultima estate fu difficile. Scriveva le sue Lezioni americane: un libro bellissimo, l’ars poetica della nostra fine di secolo, dove la letteratura antica e moderna si riflettono in un limpido specchio. Non era di buon umore: non usciva più di casa, chiuso nell’alta colombaia, non faceva il bagno. Pensava di perdere tempo: era uno scrittore, doveva dar forma alle decine di racconti che gli gremivano il capo, non riflettere sulla letteratura. (…)

In quegli ultimi giorni lo vidi due volte; e fu tenero, affettuoso, divertente, quasi felice. Giunse a baciare mia moglie sulla guancia – come di rado quelle astratte e avare guance liguri si erano piegate sulla guancia di un’amica! Andai a dormire pieno di gioia. (…) Non c’era nessuna ragione di apprensione. (…)

Poi non ci fu più niente. Ci fu la caduta al suolo, la corsa dell’autoambulanza fino a Siena, l’orribile ospedale dove avevo conosciuto altre morti, i visi stravolti dei medici, l’operazione inutile, i discorsi inutili, le attese inutili, il capo bendato, la piccola tomba sul mare di Castiglione. (…)

Quella di Italo era una malformazione cerebrale congenita. (…)

Com’era stato accorto nel sottrarre tempo – l’unica ricchezza che importa – alle divinità che si prendono gioco di noi.  E mi dissi che nemmeno lui, forse, sapeva di essere così fragile. Aveva eluso la propria fragilità con la pazienza, il lavoro, la discrezione, e quella terribile maga che trasforma ogni fragilità in forza, ogni forza in fragilità: la letteratura.

Non sogno mai. Due anni più tardi, Italo mi apparve in sogno. Aveva ancora la fronte bendata, ma il sorriso era quello, luminosissimo, dell’ultima sera. (…)

Era… un messaggio dai Campi Elisi. Diceva che il tragico non è la forma essenziale del mondo, e che non c’è mai un’ultima tragedia. Dietro c’è ancora un velo, e poi un altro velo, e poi un altro velo ancora; e questo ingannevole gioco di forme, dove quante luci e ombre si intrecciano, è l’unica cosa che possiamo conoscere.

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