GIRGENTI E I SUOI TEMPLI, DA EDRISI A FAZELLO di Giovanni Taglialavoro
1. Non si sa con certezza perché e come la città di Agrigento, attorno al nono secolo, abbandoni il suo secolare insediamento nella valle dei templi e si ricostruisca sul colle di Girgenti, dove si trova oggi.
Da tempo in realtà, il vasto territorio urbanizzato dai Greci già a partire dal VI secolo avanti Cristo e consolidato nel V e che prevedeva qualcosa come 12 kilometri di mura e almeno IX porte, si era ristretto all’area che gira attorno al poggio di San Nicola.
Già in epoca romana case e spazi pubblici si erano ritratti, con conseguente abbandono di tutta l’area dei templi di Giove, dei Dioscuri e di Vulcano. In età paleocristiana la collina dei templi venne trasformata in necropoli.
Gli Arabi la trovano con scarsi insediamenti divisi in quartieri. Cronache islamiche della conquista fanno un cenno ad una grande fortezza a presidio dell’ingresso in città probabilmente male interpretando quel che restava del tempio di Giove con alcuni dei suoi giganti ancora in piedi a sostenere resti del tempio e forse torri sovrappostevi.
Poco si sa di cosa ci fosse sulla collina di Girgenti prima del trasferimento della popolazione residua e dell’insediamento islamico. Certamente i resti del tempio greco, poi inglobato dalla chiesa di Santa Maria Dei Greci, certamente la rete ipogeica per l’approvvigionamento idrico, ma si può ragionevolmente aggiungere che attorno ad essi vi fossero altri spazi urbanizzati ad oggi sconosciuti, ma più e più volte rinvenuti e immediatamente nascosti o distrutti dai mastri muratori moderni nel timore dell’esproprio o del blocco del cantiere.
Tra la metà del nono secolo e il 1087, anno della conquista normanna della città, si definisce la struttura urbana di Girgenti. Una struttura che, via Duomo a parte, è arrivata quasi intatta fino ai giorni nostri nella parte chiamata Terravecchia.
Con un po’ di fantasia e posti nel punto d’osservazione giusto, per esempio nei piani alti del palazzo Vita, in via Porta di mare, o nel tratto finale del viadotto Morandi, si ha la visione netta del circuito delle mura normanne che partendo dalla cattedrale scendevano per l’attuale via Bac Bac arrivavano a piazza municipio, giravano per via porta di mare per poi risalire da via San Giacomo e ritornare alla cattedrale.
L’abbandono della vecchia città greco-romana-bizantina e il suo trasferimento sul colle creano le premesse di una dialettica tra antico e ‘moderno’ che attraversa tutta la storia di Agrigento.
Atene, Siracusa, Roma, per citarne solo le più note, sono città antiche sopravvissute sullo stesso territorio; Agrigento, come Selinunte o Pompei, hanno cambiato sito nel corso della loro storia, lasciando nascosti, sotto più o meno profondi strati di terreno, i resti dei loro più antichi insediamenti.
Non sempre i gruppi dirigenti di Agrigento hanno visto in questa specificità la sua grande ricchezza, a volte, per ignoranza, pensando che i resti fossero essenzialmente i templi sulla collina e non immaginando l’esistenza di un’intera città sotto il bosco di mandorli e di ulivi, altre per interessi speculativi sui suoli che degradavano dalla collina di Girgenti verso la valle.
2. Per alcuni secoli la città antica è apparsa come un immenso deposito di materiali di costruzione, una cava a buon mercato. Numerose fonti documentano il trasporto, anche con carri trainati da bufali, di blocchi di pietra dalla valle in collina per edificare torri o altre costruzioni. E col passare del tempo l’antico territorio, diventato ‘il feudo civita’, si trasforma in zona agricola dove si impiantano orti, vigneti, uliveti e mandorleti sui ruderi interrati. Pochissimi i cenni ai monumenti.
Non abbiamo descrizioni significative della valle dei templi prima della metà del mille e cinquecento. Un cenno seppur vago si trova in Edrisi, geografo arabo alla corte di Ruggero II, che descrivendo ‘l’antichissima’ Girgenti ci fa sapere “che mostra colle sue vestigia l’alta possanza che tenne un dì”.
Quali erano i segni visibili di questa ‘alta possanza’? Certamente un angolo ancora in piedi del tempio di Zeus con tre dei suoi giganti. Per il resto rovine del tempio di Ercole, di Vulcano e di Giunone e quello della Concordia inglobato in una chiesa bizantina.
Da notare come in Edrisi l’antico venga valutato solo nella misura della sua ‘possanza’. E’ ancora da venire la scoperta e la valorizzazione dell’età greco-romana, della classicità nella sua diversità-contrapposizione al medioevo e al moderno.
Primi segni di questa nuova sensibilità si possono cogliere nei versi di un anonimo poeta girgentino, trascritti da Tommaso Fazello nel ‘De Rebus Siculis’ e tradotti dal latino da Remigio Fiorentino. I versi raccontano e commentano un evento drammatico: il 9 dicembre del 1401 crolla l’ultima parte del colossale tempio di Zeus che era ancora rimasta in piedi:
Quelle rovine venerande, e belle
Che dell’opre famose, e de gli alteri
Edifici, e superbi, e de l’immense
Ricchezze tue, o glorioso, e chiaro
Agrigento, facean memoria, e fede,
E de le tue virtuti, erano illustri
Testimoni, son’hor, oime, per terra
E sotto il pondo de le gravi, e grosse
Mura, piegando i tre Giganti il collo,
E le ginocchia, e le robuste spalle,
Ch’eran di quella mole alto sostegno,
Misere andar ne la rovina estrema.
Ove son’hor le maraviglie tue
O Regno di Sicilia? ove son quelle
Chiare memorie, onde potevi altrui
Mostrar per segni le grandezza antiche?
Oime, ch’oppresse da l’ingiurie gravi
Di vecchiezza, e di tempo, hor son sepolte
Sotto à brutte rovine, e’l dì funesto
Ch’elle andaron per terra, il dì fu nono
Del mese di Decembre, e de la nostra
Salute, l’anno si girava intorno
Mille, quattrocent’un, nel quale il tempo
Nimico al tuo splendore, andò superbo
Trionfator de le miserie tue
E de’ tuoi danni si mostrò giocondo.
Il tempo, la vetustà e le gravi ingiurie hanno determinato il crollo di quel che restava dell’Olympieion. Un edificio che, per quanto ridotto a rudere, restava a memoria e fede dell’immensa ricchezza della città antica e testimone delle virtù dei suoi abitanti.
I versi esprimono un dolore profondo per la immensa perdita che il crollo ha determinato almeno in una parte della città che, non si sa se da allora o un secolo dopo, decide di mettere nel suo stemma i tre giganti caduti.
3. Un secolo e mezzo dopo Fazello visitando quel luogo non “vede altro, che un grandissimo monte di pietre, il qual dal vulgo è detto il palazzo de’ Giganti”
Questo ‘grandissimo monte di pietra’ diventerà sempre di più la cava dei Giganti, il luogo della sistematica spoliazione dei materiali costruttivi che andranno a far vivere nuovi edifici e un nuovo porto, poi chiamato Empedocle, e un commercio clandestino di reperti tra cui sicuramente ciò che restava delle meravigliose metope che arricchivano i frontoni del tempio e che narravano, a levante, la guerra tra Zeus e i Giganti e, a ponente, quella di Troia.
Si deve a Tommaso Fazello la prima descrizione accurata dei monumenti dell’antica città greco-romana.
Originario di Sciacca, domenicano, visse a Palermo e girò la Sicilia diverse volte.
Nel 1558 pubblica la sua opera fondamentale ‘De Rebus Siculis. Decades duae”.
La prima deca è una descrizione minuziosa delle varie città siciliane del suo tempo, ma anche dell’età classica attraverso una sistematica citazione delle fonti e una ricognizione rigorosa dei luoghi. Fazello riesce a ritrovare città scomparse e a identificare monumenti ridotti a ruderi.
Alla città di Agrigento dedica il primo capitolo del Libro VI. Tante pagine alla città antica, poche righe a quella moderna. Le fonti classiche e le numerose passeggiate di ricognizione nell’area gli consentono di individuare quasi sempre in modo puntuale i monumenti antichi esaltandone la bellezza e la magnificenza.
Dà i nomi ai templi, gli stessi che oggi utilizziamo per quanto in alcuni casi del tutto arbitrari. Vede accanto al tempio di Giunone quello della Pudicizia, non confermato da nessun altro visitatore o studioso, identifica le strutture del porto all’Emporium, intuisce le tracce del teatro.
Ma c’è anche qualcosa di nuovo nel suo approccio con l’antico. Con lui la visione del classico comincia a diventare la percezione dolorosa del tempo e dell’alterità: “Io sono stato spesso a vedere quei luoghi, e stando intento a cosi gran spettacolo me ne sono stupito, non solamente per la magnificenza di cose tanto maravigliose, ma per la gran possanza del tempo, e della invidia della fortuna, che hanno guasto, e rovinato cosi miseramente ogni cosa. Et havendo molto ben considerato ogni cosa, non potetti far di non sospirare amaramente, pensando a quei bellissimi edifici, a quei superbissimi Templi, e a quella Architettura maravigliosissima, c’hoggi son tutte rovinate”.
E tuttavia contro il tempo qualcosa va fatta: la tutela e la conservazione dell’antico è un compito nuovo che Fazello coglie in largo anticipo:
“ Le rovine di Agrigento trapassano quelle di Roma (…) Ma a’ nostri tempi, non si trova alcuno di quelli edifici, che sia integro, ma si vede ogni cosa rovinata e per terra. Il che non tanto è avvenuto per cagion de’ tempi, e della vecchiezza, quanto per trascuraggine de’ nostri vecchi, i quali miseramente hanno lasciato rovinar quelle cose, che con poca spesa di piccoli puntelli, e pochi sostegni, potevano lungamente tenere in piedi. Il che hanno fatto, ò per fuggir la spesa, ò la fatica, e non è stato senza grandissima iattura, e danno della posterità, e dell’arte del fabricare.”
Fazello, dicevamo, ‘vede’ i resti del grande teatro: “Eravi anche un Teatro altissimo, il quale fu molto celebrato da Giulio Frontino, nel suo terzo libro de gli stratagemi, et hoggi a gran pena si conosce dalle rovine de’ fondamenti, che son presso alla Chiesa di S. Nicolò.”
Singolare la storia di questo cenno al teatro. Come è noto nessun altro viaggiatore o studioso dopo Fazello riuscirà a confermare la sua presenza. Anzi si arriverà a sostenere che lo storico di Sciacca abbia forzato sia il testo di Frontino che i suoi occhi: e in effetti il riferimento di Frontino al teatro di Agrigento era proprio un errore segnalato dagli studiosi, essendosi svolto l’evento citato dallo storico a Catania, e non ad Agrigento; quanto invece all’acume dei suoi occhi si dovrà aspettare il 2016 per avere la conferma dell’esistenza del teatro antico proprio nelle vicinanze di san Nicola. Nessuno lo aveva cercato lì dove è stato trovato. Provò a seguire Fazello negli anni trenta dello scorso secolo l’archeologo Pirro Marconi, finanziato dal capitano inglese in pensione sir Alexander Hardcastle, scavando a nord dell’ex convento in una conca semicircolare dove però non si trovò traccia dell’edificio agognato. Poi ai primi anni novanta Ernesto De Miro, scavando in un’area contigua a quella del Marconi e rinvenendo strutture monumentali e un nuovo tempio di età ellenistico-romana, aveva fatto trapelare di essere ormai sulle tracce del teatro che invece spunta come detto nel 2016, ma a sud est di San Nicola con il lavoro di altri studiosi che portando alla luce il teatro salvano ancora una volta la credibilità del monaco saccense.
4. Per Fazello la città moderna, come detto, merita pochi e sommari cenni. Ha una bella cattedrale, vi si ammirano le architetture della famiglia Chiaramonte caduta in disgrazia e poi ci vive Giovanna Pancia, donna agrigentina maritata a Bernardo Belluardo, agrigentino, che è stata donna fecondissima, perché avendo partorito circa trenta volte, ha fatto settantatre figliuoli.
Stranezze, come quella di un olio bituminoso, utilizzato come medicina, che galleggia in un lago, nei pressi della Kolymbetra, vicino agli orti della Badia e del medico ‘eccellentissimo’ Angelo Strazzante; o quella di un’acqua potabile che dopo promettenti zampilli diventava marmo. Poco altro.
Fazello delinea il quadro narrativo e l’itinerario ai futuri viaggiatori che da tutta Europa nei secoli successivi giungeranno alla valle dei templi.
E insieme formula i termini di un rapporto necessariamente ancillare della città moderna rispetto alla maestosità delle rovine a valle, non mancando di evocare ‘la trascuraggine de gli Agrigentini’, nel crollo dell’ultima parte del tempio di Zeus e del cattivo stato di conservazione degli altri monumenti.
Con Fazello inizia una separazione tra la città e l’area antica che andrà assumendo una rilevanza autonoma sempre maggiore: se prima si andava a Girgenti e di passaggio, forse, si ammiravano i monumenti antichi, da ora in poi si verrà a Girgenti soprattutto se non esclusivamente per vedere e studiare la città antica.