PAVESE TRA DISCIPLINA E PIETA' di Pepi Burgio

Rileggo a distanza di una vita La casa in collina, da molti giudicato il più autobiografico, nonché il più bel romanzo di Cesare Pavese. Scritto negli anni 1947-’48, ha come sfondo gli avvenimenti drammatici successivi all’8 settembre del ’43, quando gli oscuramenti e i bombardamenti costringono Corrado, alter ego di Pavese, ad abbandonare Torino per rifugiarsi tra le braccia protettrici della casa in collina, luogo mitico dell’innocenza dell’infanzia. Ma il precipitare degli eventi, l’azione svolta dalle formazioni partigiane e le conseguenti rappresaglie dei repubblichini e dei nazisti, spingeranno il protagonista verso altre, meno insicure colline. Ma chi è Corrado? Corrado è un professore di fisica, un uomo solo, prigioniero della colpa a riguardo della vita amorosa e dell’impegno civile. Corrado è per certi versi un inetto, un puer aeternus che vive drammaticamente la sterilità della propria condizione; di cui ha consapevolezza, ma tuttavia non crede possibile per sé l’assunzione di un atteggiamento risoluto, maturo, di fronte alle responsabilità della vita.

            Come Corrado, Pavese ha vissuto - fino all’epilogo tragico della propria vita - le dinamiche tipiche di ogni avvitamento nevrotico: il suo disperato destino è quello di non riuscire a legarsi agli altri, a sentirsi solidale. (D. Lajolo)

            La casa in collina, alla sua uscita provocò più di un mugugno fra quanti registrarono con fastidio, non tanto l’insistenza dell’autore sulla curvatura esistenziale del protagonista - a scapito di una più puntuale connotazione epica degli avvenimenti storici - quanto per la pietà accordata ai morti della parte sbagliata. A cui vengono rivolti commossi accenti lirici, destinati a collocarsi fra i momenti più significativi della letteratura italiana dela prima metà del ‘900.

Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche morto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. 

Pavese, va ricordato, a testimonianza della sua sostanziale estraneità al linguaggio e alle liturgie della politica, oscillò tra l’iscrizione al P.N.F. del 1933 e l’esperienza, malgré soi, del successivo confino a Brancaleone Calabro, per approdare infine nel 1945 al P.C.I., ma più per affermare la radicale avversione a quel regime responsabile della persecuzione e della morte di alcuni suoi amici, Leone Ginzburg in particolare, che per convinta adesione ideologica.

Ebbene, ciò non ha però impedito che si consolidasse una rappresentazione, o più che altro una vulgata, che percepisce Pavese come una delle grandi figure dell’antifascismo sul fronte della cultura. Quanto questa lettura fosse in gran parte ad usum Delphini, è stato svelato da uno sconvolgente articolo di Lorenzo Mondo, che su La Stampa dell’8 agosto 1990, ha pubblicato quarant’anni dopo la morte dello scrittore, il contenuto del cosiddetto Taccuino segreto, scritto da Pavese negli anni della guerra; trenta piccoli imbarazzanti fogli di un block-notes rinvenuto in un baule tra centinaia di lettere che Mondo aveva ricevuto dalla sorella di Pavese. In essi non c’è nulla di coerente, ma emergono, inequivoche, schegge di una personalità a dir poco ambigua nelle sue declinazioni politiche; in ogni caso irriducibile, non assimilabile, a quella del Corrado de La casa in collina

[foglio 2] Noi siamo entrati in guerra poco preparati eppure resistiamo da due anni (ag. ’42). Chi l’avrebbe detto? Quando sarà finita dovrai rivedere le tue idee sull’anima nazionale. Non sapevi che esisteva eppure eccola!

[f. 3] Sarà vero che M [ussolini] ha sempre ragione? Quando si riesce, si ha ragione.

[f. 5] Una cosa fa rabbia. Gli antif. [ascisti] sanno tutto, superano tutto, ma quando discutono litigano soltanto… E mostra ben che alla virtù latina o nulla manca o sol la disciplina… il f. [ascismo] è questa disciplina. Gli italiani mugugnano, ma insomma gli fa bene.

25 ottobre ’42

[f. 8] Se soltanto il f. [ascismo] troncasse veramente gli indugi e si liberasse degli sfruttatori, come non seguirlo? Certo questa guerra gli insegnerà molte cose.

[f. 9] Tutte queste storie di atrocità naz. [iste] che spaventano i borghesi, che cosa sono di diverso dalle storie sulla [f. 11] rivoluzione franc. [ese], che pure ebbe la ragione dalla sua? Se anche fossero vere, la storia non va coi guanti. Forse il vero difetto di noi italiani è che non sappiamo essere atroci.

[f. 19] Il f. [ascismo] non solo ha dato l’unità all’Italia, ma ora tende a dargliela repubblicana

[f. 24] Perfino Dostojevskij, il poeta della pietà, fa nel Diario di uno scrittore l’elogio della guerra. Come mai? Capiva la lezione di disciplina, di sacrificio, di patria che la guerra da.

[f. 28] Gli intellettuali hanno contato troppo nella vita italiana. Essi sono vili, litigiosi, vanitosi. Bisogna tornare allo Stato, alle personalità politiche, superiori a quelle della cultura. Dicono che sarebbe barbarie, ma non è vero. Sarebbe ordine.

            Quest’anno la casa editrice Aragno di Torino ha meritoriamente pubblicato il cosiddetto Taccuino segreto con l’introduzione dello storico Angelo d’Orsi, la testimonianza di Lorenzo Mondo e un bel saggio della curatrice dell’opera, Francesca Belviso. Di particolare interesse è la raccolta degli articoli di stampa scritti dal Gotha della cultura torinese: Alessandro Galante Garrone, Franco Ferrarotti, Gianni Vattimo e alcuni altri. Tra questi Gian Carlo Pajetta: Noi siamo gente capace di perdonare, di dimenticare no…; e Natalia Ginzburg, con un appassionato ricordo dello scrittore, di grande valore letterario e civile. Pavese, nonostante tutto, dice la Ginzburg, ha insegnato la pietà

Vero. Dopo l’Iliade e il Vangelo e tanto altro ancora.