PER UNA CITTA' GENTILE DEGNA DEL SUO PASSATO di Giandomenico Vivacqua
Simbolo della civiltà antichissima e della barbarie moderna, come la definì Ruggero Orlando, commentatore del Giro d’Italia che nel 1965 passò per Agrigento, la nostra non è una città univoca. Rupestre, arroccata, labirintica la città medievale, in collina. Aperta, distesa, razionale la città classica, a valle. Tra le due espressioni, una distanza psicologica e sentimentale cresciuta nei secoli, fino a farsi abisso nella seconda metà del ‘900, quando, per improvviso benessere dopo lunga miseria, gli agrigentini si danno a fabbricare smodatamente, senza coerenza con la propria storia né alcun tributo al senso della misura. Uno scempio, una profanazione. Unica attenuante, il parziale riscatto igienico di un popolo mortificato dall’indigenza e dalla promiscuità dei catoi, dove il fiato degli animali si confondeva col respiro delle creature.
Agrigento ne esce deformata, irriconoscibile. Smisurati insulti di cemento occupano gli slarghi solatii della vecchia Girgenti, pretenziosi condomini erompono a centinaia dai teneri fianchi delle sue colline, stringendo d’assedio i vecchi quartieri, adombrandoli, soffocandoli. Disarmati, disorientati, politicamente insignificanti, i resistenti della città vecchia sono abbandonati a una lenta dissoluzione naturale, nell’umidore dei cortili dove acre vapora l’urina dei gatti e gli anni trascorrono senza alcuna redenzione. E mentre si consuma un tradimento urbanistico e sociale con pochi precedenti nella storia del paese, trionfa in fretta il nuovo ordine, la nuova fede di massa, il consumismo degli ultimi: vorace, sgraziato, senza il tempo di assimilare almeno l’ipocrisia delle buone maniere.
Reciso dal trauma di una metamorfosi mostruosa ogni residuo legame con l’antica dignità di Akragas, Agrigento rimane prigioniera di questo insoluto dualismo. Troppo brutta e volgare la città moderna per rivendicare e gestire credibilmente la sontuosa eredità del passato, le sue classi dirigenti oscillano tra l’ostilità rancorosa verso i templi dorici, le “quattro pietre” ritenute il freno dello sviluppo edilizio della comunità, e il patetico orgoglio per essere nati nei pressi di tanta bellezza, lasciata in dono dai progenitori greci e romani per il nostro campanilistico compiacimento, senza che ciò comporti alcuna responsabilità verso il mondo e le generazioni future.
Questo stato di cose perdura per buona parte del secolo scorso e scava un solco sempre più profondo tra la città antica e quella moderna. In quel solco sprofondano i sentimenti consortili degli agrigentini, la naturale affezione verso i luoghi dell’infanzia, l’attitudine a sentirsi parte di una comunità di destino. Sono anni terribili in cui dilaga l’inimicizia, la diffidenza, l’indisponibilità alla riconciliazione tra i singoli e tra i gruppi; lo spirito pubblico regredisce al tribalismo, ciascuno refluisce in un clan, il cittadino è sostituito dal compare.
Verso la fine del secolo, la difficoltà di una corretta lettura antropologica di quanto accaduto alimenta, in una minoranza illuminista, la convinzione, in fondo consolatoria, che il disastro sia solo il prodotto di sconci interessi, imputabili ad alcuni specifici soggetti da additare e destituire. L’invettiva, la filippica sono gli strumenti retorici con cui è condotto il tentativo di applicare a una vicenda dalle infinite implicazioni sociali e politiche la logica binaria del giudizio, che non scampa all’alternativa colpevole/innocente. La città precipita in una dolorosa stagione sacrificale, contrassegnata da un susseguirsi, estenuante e improduttivo, di rituali di degradazione pubblica, una vera e propria guerra morale senza costrutto, in cui sono dissipate nell’indignata denuncia risorse intellettuali e nervose che sarebbero state utili alla comprensione e alla maturazione di un condiviso sentimento di orrore e di pietà. La disperazione e la vanità di sentirsi pochi, migliori e incompresi, prevale, ritardando di almeno vent’anni la possibilità di ricucire i due lembi strappati della nostra realtà.
Solo negli ultimi anni la distanza tra le due città ha cominciato a ridursi e la necessità di una convivenza armoniosa a diffondersi come senso comune. Finalmente, una richiesta di decoro e di pulizia s’accompagna alla consapevolezza che Agrigento, per essere contemporanea, deve ripensare se stessa come l’articolazione moderna del suo impegnativo passato. Occorre riconoscere che l’attuale sindaco, forse anche perché eccentrico rispetto al groviglio novecentesco delle passioni e degli interessi prettamente agrigentini, sfugge alla logica duale del passato, e stia tentando, con una postura narrativa corretta, a tratti efficace, di insediarla dove le compete, tra le capitali della memoria e della cultura occidentale, con ancora tutte le sue incalcolabili contraddizioni. Che il tentativo riesca o no si può discutere, ma la direzione è tracciata e appare coerente, ad esempio, con l’inserimento della Valle dei Templi tra i siti patrimonio dell’Umanità.
Come si può essere agrigentini? Con una certa fatica, direbbe Sciascia. Non dobbiamo, tuttavia, temere la fatica del riscatto, anche se lento, lentissimo, e non dobbiamo cedere alla tentazione, facile e fatale, di proiettare gli umori nerissimi della nostra incipiente vecchiaia sopra un capro espiatorio, un altro, dopo i tanti linciati solo ieri l’altro dalle nostre lingue affilate, dalle nostre penne appuntite. Non c’è consolazione nella pedantesca contabilità delle insufficienze, se non c’è, al contempo, una generosa considerazione dei meriti. Alle impettite e risentite requisitorie, strutturalmente parziali ed essenzialmente contestabili e confutabili, dobbiamo preferire la grazia e la gentilezza. Un debito che dovrebbe sentire con la massima urgenza chi ha letto e viaggiato di più.
Nella città del Cardinale Arcivescovo, la cui cattedra è un presidio strategico di tolleranza, accoglienza e comprensione nello scontro planetario tra umanità cristiana e disumanità sovranista, possiamo limitarci a salmeggiare, con voce sottile, i nostri pretesi valori, mentre premono alla porta i bruni e i longobardi? Io credo di no e preferisco subire il sibilo del fariseo e lo sputo del pubblicano, che non hanno tardato ad arrivare, che il morso della mia coscienza.