L'INAFFIDABILE SENSAZIONE DELLA DURATA di Pepi Burgio

Da molti ritenuto il più bel romanzo di Yukio Mishima, “Il padiglione d’oro” trae spunto da un fatto di cronaca realmente avvenuto nel 1950, quando un giovane buddista, malformato e balbuziente, appiccò il fuoco ad una delle opere architettoniche più sacre e importanti della religiosità zen, il Kiukakuji, all’interno di un famoso

santuario di Kyoto.

Su questo episodio, assunto come pretesto narrativo, Mishima compone una trama di immediata valenza simbolica; così da rinnovare l’ossessione primaria della sua visione del mondo, ovvero la critica inesorabile della modernità e, contemporaneamente, svolgere una toccante rammemorazione dell’infanzia.

Mizoguchi, il giovane buddista piromane protagonista del romanzo, osserva incredulo lo scempio dello spazio sacro antistante il padiglione d’oro, profanato da un soldato americano fresco vincitore, adiposo e sghignazzante, ubriaco fradicio in compagnia di una prostituta giapponese, anch’essa ubriaca, oggetto di ogni capriccio umiliante e vessatorio. E’ il malinconico trionfo della laidezza, nella luce giallastra della rovina, descritto da Mishima in maniera impareggiabile.

Anche noi, esseri effimeri, una volta ci recavamo in un luogo sentito, a nostro modo, sacro. Ad esso, ormai da tempo sfigurato, siamo rimasti fedeli, ritrovandolo rispecchiato, come direbbe Peter Handke nel “Canto alla durata”, in gesti di scarso significato: chiudere con cautela la porta, sbucciare con cura una mela, varcare con attenzione la soglia, chinarsi a raccogliere un filo. La durata è un brivido che si presenta, inatteso, in momenti qualsiasi dell’esistenza ordinaria. Per Peter Handke la durata predilige gli spazi marginali, senza fama e senza risonanza, quelli che spesso non sono nemmeno riportati sulle carte. Questa, dice Hans Kitzmüller, autore di una bella postfazione dell’opera, pur essendo essa stessa molto breve, è contrapposta alla transitorietà, all’effimero. La durata è un sentimento, il sentimento della durata, appunto, che nulla ha a che spartire con la persistenza temporale, con la percezione fisica del tempo. La durata, dice Handke, è un diverso senso del tempo, come quando si amava, e il prima era anche un dopo e il dopo anche un prima. Essa appare nell’affetto per i vivi, nella coscienza di un legame, di un vincolo (religio), che nello stato di grazia della durata, finalmente mi consente di non avvertirmi più nella solitudine, nonostante la durata non sia un’esperienza collettiva, non formi un popolo. Peter Handke rinveniva i luoghi d’irradiazione della durata nel lago di Griffen, nelle Porte d’Auteuil e nella Fontaine Sainte-Marie. Noi, in maniera sommessa, negli anni abbiamo creduto che il nostro padiglione d’oro, la nostra durata, si potesse rintracciare in un blocco di marna bianca che illumina il mare, con in cima le nicchie per uccelli notturni.

Ma la durata, così la definisce Handke, è inaffidabile, non si lascia comprendere con l’intelletto, è un’intuizione, e non consiste stabilmente in una forma, è la sensazione di vivere, è l’essenza che ogni volta dà slancio. Definirla una volta per tutte, sarebbe, come dice un maestro Zen, cavalcare il bue in cerca del bue.