Se si confronta la distribuzione dei seggi del 2001 e del 2008 si scoprirà che la sconfitta di allora del centrosinistra fu decisamente più pesante rispetto a quella di adesso almeno in termini di rappresentanza parlamentare: nel 2001 il centrodestra aveva 176 senatori contro i 126 dell'Ulivo e Di Pietro (+50) mentre adesso ne ha 174 contro 132 ( +42) , alla Camera ne aveva 368 contro i 250 dell'Ulivo ( +118) e adesso ne ha 344 contro i 246 del Pd (+98). Se si considera la distribuzione dei voti, il centro destra nel 2001 alla Camera, nella quota proporzionale, aveva avuto il 45,4 e adesso, sempre alla Camera, il 46,8. E' opportuno ricordare che la quota di popolo che i parlamentari del centro destra rappresentano è pari al 46,8 o al massimo, 49,3, aggiungendoci la quota della Destra. Nel paese il centrodestra rappresenta meno del 50% e in parlamento ci sono dunque i numeri per una battaglia di opposizione simile a quella fatta sette anni fa culminata con il cambio di governo delle elezioni del 2006.
Ma allora, come spiegare il funereo clima che sta accompagnando la prevedibile e prevista sconfitta del Pd? Forse qualcuno aveva coltivato l'illusione che Veltroni avrebbe potuto fare il miracolo di portare il Pd da solo alla vittoria? Tutti gli osservatori scrivevano, durante gli ultimi giorni del governo Prodi, che non potendo prolungare di molto la tenuta del governo, era interesse di Veltroni andare alle elezioni politiche anticipate, scaricare il peso della sicura sconfitta sul governo Prodi e cominciare, dalla rinnovata pattuglia parlamentare, un nuovo ciclo virtuoso. Oggi gli stessi osservatori scrivono di disfatta e fingono stupore per la sconfitta di Veltroni. Non si vuole attenuare ovviamente la sconfitta, ma capirne meglio la portata e soprattutto riflettere su come attrezzarsi per dare una prospettiva al popolo di centrosinistra e alle sue rappresentanza politiche parlamentari. Come unire questo popolo disorientato e deluso? Con quale collante e per quale Italia? Rispetto al 2006 manca un cemento fondamentale che nessuno sembra voglia riutilizzare: l'antiberlusconismo. E allora su cosa puntare?
Adesso ci dicono che il problema del Pd è se corteggiare o no la Lega, se assumerla come elemento potenziale di contraddizione nel blocco berlusconiano o se, al contrario, considerarla il 'nemico' principale. Non ci siamo. La Lega è la ' verità ' del blocco berlusconiano: la lotta al relativismo etico, l'apologia dell'arricchimento individuale, l'odio dei diversi e il disprezzo dei più deboli, tratti distintivi del Pdl, trovano nella Lega la più radicale e coerente applicazione.
Si potrebbe pensare che sul federalismo fiscale l'anima statalista e centralizzatrice di An o quella solidaristico-cattolica, presente anche in Forza Italia, possano collidere con il progetto leghista, ma, in realtà, il mantenimento del potere, che la loro convergenza politico-elettorale assicura, farà aggio su ogni antico richiamo identitario. La nuova identità del governo Berlusconi e del suo blocco politico sociale sarà sempre più data dalla consapevole e risoluta scelta di tenere insieme e di confermare i diversi, di alleare i particolarismi per garantire loro la più radicale espressione e non già una sintesi nuova e superiore.
Berlusconi ha preso atto che all'Italia frantumata ( la metafora dello specchio rotto) e centrifuga può rispondere non con un'idea nuova di rilancio unitario, ma con la predisposizione di un sistema politico e istituzionale col quale i particolarismi potranno esprimersi senza impaccio.
Dobbiamo sapere, e saper spiegare, che questo progetto consumerebbe la fine del nostro paese, il ritorno all'idea di Cesare Balbo o di Gioberti, non di Cattaneo o Ferrari, all'idea cioè di una confederazione italiana degli stati regionali e una definitiva insignificanza del nostro paese nell'ambito europeo e mondiale. Un'Italia dei Nuovi Principati o, se si vuole, dei nuovi casati che si chiamano Fiat, le Banche, Fininvest, Telecom, i grandi gruppi della sanità privata, i gestori delle reti e così via. Ed è facile prevedere che, come è successo con Mediaset, anche per questi gruppi si affermerà il principio che i loro interessi o, meglio, la somma dei loro interessi costituirà l'interesse generale, irridendo l'idea liberale che solo con regole e concorrenza si possa pervenire all'interesse generale, la cui applicazione colpirebbe lo status e la crescita di chi oggi domina il mercato con contraccolpi occupazionali immediati compensabili solo nel lungo periodo nel quale, come è noto, siamo tutti morti.
Insomma un ritorno, da destra, a Marx e a Lenin secondo i quali lo stato non è nient'altro che un comitato d'affari dei gruppi dominanti, con il paradosso di vedere gli epigoni di Marx difendere il profilo universale dello stato e la autonomia delle istituzioni, ossia i capisaldi del pensiero liberale. E non è il solo paradosso: che i gruppi dominanti vogliano tutelare i loro interessi è cosa ovvia e legittima, il guaio è che quelli che ne sono lontani o che vivono in condizioni di grande disagio, vedano nella vicinanza politica e ideologica a questi gruppi una via più sicura e più veloce di miglioramento della loro condizione.
Il partito democratico è in grado di aggregare la borghesia, oltre che sulla denuncia delle regole liberali calpestate, anche su un'ipotesi di espansione maggiore e migliore con un altro sistema istituzionale e valoriale di riferimento? Il partito democratico e quanto resta della sinistra sono in grado di convincere gli strati popolari più deboli come sia illusorio aspettare i resti delle cene degli altri? E che idea dell'Italia ciò comporta? E il meridionalismo democratico dovrà cavalcare tatticamente l'autonomismo o individuare i termini di un nuovo patto nazionale, che non sia ' faccia ogni regione quello che gli pare'?
La destra di governo non ha un'idea unitaria dell'Italia: anzi vorrebbe tramutare in valore il limite della nostra nazione, ossia lo sviluppo diseguale e la sovranità limitata delle istituzioni del sud. E il patto, apparentemente assurdo, tra il leghismo e l'autonomismo siciliano, e cioè tra chi denuncia l'assistenzialismo e chi su esso fonda la propria ragione d'esistere, altro non è la reciproca abdicazione ad intervenire sulle dinamiche interne dell'altro, ossia, appunto, l'annullamento consensuale dell'idea stessa di nazione.