L'UOMO IL LINGUAGGIO LA REALTA' di Giorgia Cuffaro

Pubblichiamo il tema con cui Giorgia Cuffaro, studentessa dell’ultimo anno del Liceo Classico “Empedocle” di Agrigento, ha conquistato il passaggio alla fase nazionale delle Olimpiadi di filosofia. Si tratta di una riflessione sul rapporto tra linguaggio e realtà che prende spunto da una frase di Wittgenstein: “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. 

Che ne sarebbe dell’uomo. Che ne sarebbe di un uomo rimasto solo in mezzo a mille alberi senza nessuno che parli con lui o di lui, nel silenzio.

Avrebbe ancora se stesso - certo- e su qualche lago si vedrebbe riflesso, ma gli specchi non parlano e se anche ascoltassero non avrebbero strumenti per rispondere.

Cosa resterebbe a dargli la certezza di esistere. Vede il mare, il cielo; e se fossero di carta.

Siamo tutti quanti increduli anche o forse soprattutto di fronte all’evidenza; tutti quanti scettici e sospettosi: la scienza mi dice che sono possibili le allucinazioni, io ho visto un gatto e non credo di essere allucinato però quel che io credo non è detto sia la verità e neanche la scienza magari ne sa nulla della verità.

Ma che si può fare. Siamo fatti così noi che - si conosca o meno la parola - indossiamo tutti una robusta corazza di “post-modernità” che squarcia senza scrupoli ogni presunto cielo di carta.

Le illusioni le troviamo ridicole, l’armatura è troppo pesante per lasciarci sollevare i piedi da terra e così restiamo immobili su un’altura chiamata dubbio, l’unica da cui si è certi di non precipitare.

Lyotard chiamava metanarrazioni i possenti edifici del pensiero umano, le grandi promesse di emancipazione rese credibili da progetti organici e coerenti- molti romanticamente vittime della loro ambizione.

Il mondo vero è divenuto favola, aveva annunciato troppo presto rispetto al proprio tempo un tedesco che di sospetto se ne intendeva.

Parole: di questo sono fatte le favole, parole, animali parlanti e altre finzioni.

Eppure quelle menzogne hanno profondamente a che fare con noi che - fino a prova contraria - esistiamo davvero; è della nostra vita che parlano, nella veste semiopaca della metafora.

E’ curioso che lo strumento dell’inganno – anche senza malizia, come quello di una favola – sia lo stesso della verità, lo stesso cioè che intende spiegare – ancora nella favola – come agire o non agire nel mondo vero, nella realtà della vita.

E’ ancora più ironico che la causa o, se non altro, il veicolo del dogmatismo teoretico delle precedenti epoche – la tanto inflazionata “parola dominatrice” – sia poi stata scelta come antidoto di quel morbo bimillenario. Il linguaggio verbale, in quanto prerogativa dell’uomo-soggetto, avrebbe infatti generato in lui la sensazione - sedimentatasi in certezza - di godere di una sorta di primato ontologico sul resto del mondo-oggetto. Per l’uomo la lingua è la brillante creatura del suo genio e, che riveli o meno la tanto indagata essenza delle cose, il dato è che grazie ad essa gli è consentito proporre la propria originale Weltanshauung.

L’uomo può dire - per intenderci- “che un gatto sia un gatto l’ho deciso io”: il nome dell’animale è una sua invenzione, non certo del gatto. Ora la differenza tra questo punto di vista e quello dei filosofi del “post” sta - mantenendo l’esempio - nella scelta di questi ultimi di mettere in discussione la definizione data all’animale. La rivoluzione linguistica del secolo scorso consiste nell’aver negato persino che la scelta delle definizioni possa ricadere sull’uomo; le parole non sono del soggetto, sono nella realtà e nel pensiero.

Una regressione all’innatismo o ad una qualche forma di idealismo? Molto di più. Si tratta di spostare il baricentro del mondo; non più l’uomo né la natura occuperanno quel posto, ma la lingua stessa nei suoi giochi inarrestabili, lingua che fluisce e zampilla, mare calmo e onde gibbose, lingua che sgorga da se stessa e per se stessa vive, libera.

Provare a rallentare il ritmo o a saltare fuori dal vortice delle parole un attimo prima di esserne risucchiati, giusto il tempo di estrarre un paio di tautologie rassicuranti, è tutto ciò che ci resta? Affatto.

Basta conoscenza, ne siamo costipati. Le verità sono stupide, sono intelligenti solo le interpretazioni.

C’è differànce - ci dice Derrida - tra la parola scritta e ciò a cui si riferisce, nel senso sia di uno scarto tra le due sia di un rimando dell’una all’altra. Possiamo accettare – come volevano Wittgenstein e Heidegger – che sia un errore separare le parole dalle cose, ma che ci resterebbe da fare se esse fossero una perfetta identità. Ben venga la differànce, ben vengano gli errori che ne derivano, la realtà fraintesa e capovolta e i tentativi, le ipotesi, anche quelle all’apparenza infondate.

Siamo questo: un disordinato brulichio e la tensione ad attraversarlo.

Che significa poi linguaggio? Lingua è anche quella primitiva, inarticolata, monologica con cui Lacan solletica la nostra memoria infantile e addirittura uterina.

Lalangue si alimenta di atmosfere, umori, fonemi, non ha alfabeto, né indole comunicativa; fa soltanto una cosa: ricorda ad ogni esistenza di essere unica.

Verso una disarticolazione del linguaggio ancora più netta si rivolge Levinas quando individua come perno dell’etica le tracce della sofferenza altrui, l’assenza di espressività sul viso di un amico defunto.

Siamo nel punto più profondo dell’abisso, il pensiero non è mai stato così debole.

Qualcosa al contrario è sulla cresta dell’onda: il linguaggio, che ha lasciato la sua impronta anche sul niente della morte. Qual è dunque il rapporto tra realtà e linguaggio. Semplice. Lo stesso che c’è tra una goccia d’acqua e tutti quanti gli oceani.

 

 

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