I LUOGHI DELL'INFANZIA CI INDIVIDUANO NEL PROFONDO di Pepi Burgio
Sono rari, quindi preziosi, quei libri che aiutano ad inoltrarsi nel linguaggio scabroso di alcuni grandi pensatori del ‘900. Uno di questi è Heidegger & sons di Donatella Di Cesare. Lettura in un certo senso natalizia, ovvero da solitaria clausura al frastuono del mondo. Fra i mille spunti offerti da questo bel libro, quello sul breve saggio di Martin Heidegger, Perché restiamo in provincia?, mi è sembrato particolarmente interessante; e non solo perché, per un attimo, mi sono illuso di poter iscrivere le mie prosaiche fobie in una grande cornice filosofica. La Di Cesare ribadisce convintamente la stretta relazione, in verità già messa in luce da altri, tra il pensiero di Heidegger, in particolare sul versante della critica radicale della modernità, e il luogo, la solitaria baita di montagna di Todtnauberg, dove il filosofo concepì gran parte della sua imponente produzione. In perfetta solitudine, considerata da Heidegger non come mera tonalità psicologica, quanto condizione necessaria dell’accadere della filosofia. Il suo pensiero - dice la filosofa romana - è legato a quel luogo, dove la meditazione non cerca ampiezza ma profondità.
La ricerca della prima definisce le città, la pubblicità, la gettatezza, l’inautenticità del moderno; la seconda si alimenta, nella individuazione della scena originaria in cui la verità si manifesta nascondendosi, della prossimità dei paesaggi d’infanzia e della poesia, ovvero il soggiornare attento e meditativo nella parola. E ancora boschi, colline, legna da ardere, sentieri, libri consunti, corridoi antichi, campane serali. Non solo Berlino, o Parigi o Londra o New York, ma anche la placida Friburgo, presso la cui università, col suo linguaggio di portata mondiale, Heidegger ha insegnato per molti anni, appare sospetta, smarrita, deietta nel suo essere un piccolo segmento del mondo globalizzato, interconnesso. Ma il pensiero autentico sorge, dice Heidegger, quando, nel profondo della notte invernale, una violenta tempesta di neve avvolge la baita, copre e vela tutto.
E a proposito della prossimità dei paesaggi d’infanzia, si manifesta un’altra suggestione suggeritami da Massimo Recalcati che, nella sua ultima pubblicazione, A libro aperto, ha tratteggiato il concetto lacaniano di lalangue con la consueta chiarezza. L’estrema esotericità di Lacan, verosimilmente mi avrebbe indotto a desistere dalla comprensione dell’idea. Ma Recalcati mi ha soccorso. Provo a compendiarlo: a) Lalangue, lalingua, è il luogo dove si coagula la singolarità irripetibile di una vita; b) Jaques Lacan l’ha scritto tutto attaccato per mettere in luce la sua origine spuria, neologistica, singolare, inarticolata; c) [...] lalingua riflette la condizione assolutamente singolare - inconscia - di ciascuno; d) lalingua è una lingua “privata”, la sua vocazione fondamentale è monologica e non dialogica. Lalingua non è fatta per essere condivisa, ma per definire la singolarità incondivisibile di una vita e le tracce uniche ed irripetibili che l’hanno formata. In questo senso somiglia alla poesia; e) lalingua non è semplicemente prima del linguaggio, ma immanente al linguaggio seppur irriducibile al linguaggio; f) ognuno porta con sé la sua prima lalingua come una sorta di resto insopprimibile, fatto di pezzi confusi, elementi sparsi, odori, affetti, suoni, memorie antiche che nemmeno l’azione letale del linguaggio può dissolvere; g) [...] lalingua è la funzione con la quale il carattere unico ed incondivisibile delle prime tracce depositate nell’inconscio si avvolge all’esistenza; h) in ogni atto di creazione è l’esistenza de lalingua che viene risvegliata; i) non si tratta di parole articolate in frasi complete, ma di atmosfere, impressioni, umori, affetti, sonorità, immagini.
La prossimità dei paesaggi d’infanzia, nonché la singolarità incondivisibile che origina il linguaggio poetico, forse autorizza a cogliere qualche consonanza. Secondo me evidente. Se invece dovesse trattarsi soltanto di una capricciosa impressione, allora mi appellerò alla clemenza dei guardiani delle rispettive ortodossie.