INTORNO ALL' ASSOLUZIONE DI VIRGINIA RAGGI di Vincenzo Campo
Spesso a chiosare i commenti a proposito della sentenza che ha assolto Virginia Raggi, la sindaca di Roma, torna il consueto refrain che da qualche tempo ormai accompagna le sentenze poco gradite al commentatore: Le sentenze non si discutono. Questa specie di motto, meglio, questa frase che è diventata un motto, ormai usata e abusata, è nata in ambiente giudiziario e, più in particolare in quello forense; se la si riportasse completa così come è nata, sarebbe: Le sentenze non si discutono, ma si appellano.
Senza la conclusione rimane un'affermazione priva di senso, anzi, del tutto sbagliata.
È giusto che il difensore che si è occupato della causa non chiacchieri della sentenza che a quella causa ha dato conclusione; è giusto e deontologicamente corretto che egli non la critichi come se fosse seduto al Caffè Sport, con amici e conoscenti, a parlarne come dell’ultima partita della Spal o del fuori gioco inesistente di Omar Sivori; è giusto ed è corretto che il difensore, se lo crede, muova le sue critiche nella sede appropriata e più acconcia e l’unica adatta a lui: l’appello. E le sue critiche saranno tecniche, giuridiche, sui fatti di causa e lamenteranno quelli che egli ritiene errori di valutazione e di giudizio.
Non è così, invece, per chiunque altro che non sia il difensore, che, al contrario di lui ha il pieno diritto di discutere, criticare, maledire o benedire una sentenza.
Chiediamocelo: perché mai, se non fosse soggetta ad esame e a critica, la sentenza dovrebbe essere pubblica e pubblico il dibattimento, come pubblici sono l’una e l’altro? Una pubblicità senza il correlativo diritto di esame e di critica sarebbe assolutamente priva di significato.
Naturalmente chi vuole criticare qualcosa, qualunque cosa, può correttamente e legittimamente farlo se ciò che è oggetto della sua critica è da lui stesso conosciuto; è addirittura ovvio che la critica, qualunque critica, ha il suo presupposto logico nella conoscenza; e la sentenza e il processo non possono sottrarsi ovviamente a questa regola logica addirittura elementare.
Ovvio, no?
Ma spesso, e troppo spesso si critica senza conoscere o solo per sentito dire e solo perché l’apparente critica in realtà è manifestazione di compiacimento o di dispiacere per il fatto, la cosa che si critica; per tornare all’esempio che ho fatto sopra, come l’atteggiamento di chi critica l’annullamento del goal per fuori gioco non tanto perché pensa che ci sia o meno, quanto perché conviene o meno alla sua squadra; l’atteggiamento di chi vede o non vede il fuori gioco perché gli conviene, e questo non è giudizio, ma pregiudizio.
Detto questo, le sentenze, i processi, tutta l’attività dell’amministrazione della giustizia è perfettamente criticabile, e non è affatto vero che le sentenze non si discutono, quasi fossero tabù o totem, prodotto intellettuale di divinità laiche esenti da ogni critica e da ogni rilievo. Ovviamente la sola critica che può avere effetti sulla sentenza è quella che muove chi è parte nel processo, difensore, pubblico ministero e parte civile, che la formulano, la critica, nei modi e nelle forme stabilite dalla legge, e cioè con l’appello e col ricorso; e queste critiche sono le sole delle quali il giudice che sarà investito della cognizione della causa nel grado successivo dovrà e potrà tenere conto. Tutto il resto, il Caffè sport esula.
Ma ciò non toglie, e lo ripeto ancora a scanso di equivoci, che le sentenze possono ben essere discusse e criticate, a favore e contro; ognuno potrà dire la sua, approvarla, ritenerla giusta, disapprovarla, nel merito, nella forma e perfino nella struttura linguistica e lessicale, se lo crede.
Chi è avanti negli anni come me, ricorderà l’infuocato dibattito che seguì le due condanne di Aldo Braibanti, a nove anni in primo grado e a sei in grado d’appello per il reato di plagio che era previsto dal Codice Rocco.
E ricorderà pure, chi ne ha memoria, che Braibanti scontò due anni di carcere e poi, alla fine, la Corte costituzionale dichiarò che la norma in base alla quale Braibanti era stato condannato era illegittima sotto il profilo costituzionale e la cancellò.
E allora, discutiamola questa sentenza e diciamo pure quello che ne pensiamo, diciamo pure delle cause e delle conseguenze, sulla base di quello che di questa sentenza sappiamo, che di ciò abbiamo il pieno diritto.
Per quello che si sa, Virginia Raggi è stata assolta dal Tribunale che l’ha giudicata perché ha ritenuto che “il fatto non costituisce reato”.
Il significato della formula mi pare evidente e forse, invece, a sentire critiche da un lato e applausi dall’altro, evidente non è: il Tribunale ha ritenuto che il fatto per il quale la sindaca di Roma fu tratta a giudizio si è verificato veramente, è sussistito, e che Virginia Raggi lo ha pure commesso; ha detto però che questo fatto, esistito nei termini in cui l’accusa lo ha riferito e pure commesso dall’imputata tuttavia non impone una sua condanna perché non integra gli estremi del reato di falso
Ma Virginia Raggi, e sono contento per lei che è stata assolta, la bugia l’ha detta –hanno attestato i giudici romani, e perciò se pure non deve e non può essere assoggettata ad una pena che si chiama criminale e che nel caso specifico è la reclusione la multa, rimane comunque esposta alle critiche che si possono fare, se si vogliono fare, su chi non dice il vero e su chi il vero non ha detto nel quadro di altri fatti relativi a presunti favoritismi in favore di quel tal Marra. Ognuno di noi, dunque, potrà assolverla o condannarla, non certo sul piano giuridico, ma su quello politico, o morale o civile o sul piano che si vuole. Insomma, pare a me, che da personaggio pubblico e delle istituzioni, da sindaca della capitale d’Italia e da esponente d’un movimento che si dice moralizzatore e che della moralizzazione ha fatto se non la sua unica, la sua principale bandiera, non ci ha fatto una bella figura. E mi pare pure che chi la sostiene ha poco di che gloriarsi e chi le si oppone ha poco di che dolersi, e certo è che Il comportamento della Raggi non ha certamente nulla di encomiabile.
Ma pare che nessuno se ne renda conto e l’argomento risulta chiuso, quando chiuso non è ed è tuttora aperto a critiche e discussioni, per quel fatto che la Procura di Roma aveva qualificato come falso e per tutti i fatti connessi che riguardano una non certo bella storia di favori e di amicizie.
Il fatto è, il vero è che, confusi tutti insieme i vari piani, quello politico, quello morale, quello civile e quello giudiziario è invalso ormai il cattivo andazzo d’affidare le valutazioni d’opposizione, di delegare l’opposizione di questo o di quel politico, di questo o di quel partito, di questo o di quel ministro all’Autorità giudiziaria, facendo così un torto grande quanto una casa e anche di più al barone Montesquieu e tradendo i principi fondamentali dello stato moderno, che vuole i suoi tre poteri fondamentali perfettamente separati e autonomi, in equilibrio e senza la prevalenza di questo o di quello sugli altri; il tutto ovviamente sull’errato presupposto di una inesistente coincidenza fra male morale, politico o civile, e male giudiziario.
Ancora una volta, l'ennesima, l'opposizione a qualcuno -in questo caso alla sindaca Raggi e ai 5s- ha affidato il compito d'opporsi alle vestali della Giustizia.
La Raggi andava criticata pubblicamente e politicamente per il "favore" fatto a Marra, se andava criticata e se il favore c'era stato, al di là delle griglie e delle briglie che necessariamente impone una valutazione di carattere giudiziario.
La sentenza sarà ineccepibile sul piano del diritto e delle norme del processo, e tuttavia potrebbe darsi che la Raggi sia politicamente e moralmente colpevole.
Gli avversari politici si battono politicamente, se si hanno i numeri, le carte e le capacità per batterli senza la possibilità di delegare nessuno, e meno che mai l’amministrazione della giustizia. Confondere i piani può anche servire alla “causa”, ma qualche volta, e direi spesso, diventa un boomerang perché ovviamente l’opposizione “delegata” alle procure e ai tribunali, sfugge al controllo del delegante.