LA PRESENTAZIONE DI 'UNA VARIAZIONE DI KAFKA' di Tano Siracusa

La presentazione del libro di Sofri “Una variazione di Kafka”, avvenuta ad Agrigento il 17 ottobre alla presenza di un pubblico numeroso e molto attento, ha aggiunto nuovi elementi per la comprensione del testo, godibilissimo, e proposto spunti ulteriori di riflessione su una vicenda solo apparentemente riservata ai filologi e agli specialisti di Kafka.

I protagonisti del libro sono tanti, due i principali, l’autore e Kafka, altri secondari ma di grande prestigio come Margarita Kelsen e lo stesso Borges, altri ancora meno famosi ma difficilmente dimenticabili come il prof. Flò. 
Il nodo principale di un racconto, intricato e intrigante, ricco di sorprese e veri colpi di scena, è un cambio di parola fra l’edizione del ’15 e quella del ’17 ‘ di ‘Die Verwandlung’, erroneamente tradotto ‘La metamorfosi’ invece di ‘La trasformazione’.
La sostituzione si trova all’inizio del secondo capitolo: l’uomo-scrafaggio giace nella sua stanza-prigione e vede sul soffitto il riflesso delle luci, ‘dei lampioni’ nella prima edizione, dei ‘tram elettrici’ nella seconda.

Sofri ritiene che l’autore della variante del ’17 (i tram) sia lo stesso Kafka e non un anonimo redattore come molti hanno ipotizzato. Le ragioni argomentate da Sofri sono molte e convincenti, ricostruite viaggiando soprattutto attraverso Google fra articoli, saggi, interviste, corrispondenze private, diari.

La più suggestiva ha a che fare con il finale del racconto. 
Ricostruiamo velocemente la sequenza.

All’inizio ci sono i riflessi di queste luci (mobili) che appaiono sul soffitto sopra il povero Gregor. Passa un tram, dunque.

Poi Gregor muore, ‘abbastanza pacificamente e riconciliato con tutti’ si affretta a scrivere Kafka in una lettera a Felice, la sua incomprensiva ‘fidanzata’ di allora. 
Ma il racconto non finisce qui, come pure avrebbe potuto e come Sofri avrebbe forse preferito.

“Poi lasciarono tutti insieme la casa, cosa che da mesi e mesi non avevano più fatto, e presero il tram (Wagen in tedesco, traduce Sofri) … discussero progetti per l’avvenire, tutto ben considerato le loro probabilità non erano affatto da disprezzarsi…”
E mentre il tram attraversa Praga i due genitori di Gregor (le cui spoglie sono finite nella monnezza) si accorgono che l’adolescente Grete, la figlia, “ a dispetto degli affanni che le avevano sbiancato le guance, s’era fatta una ragazza bella e fiorente”.
I due genitori “scambiandosi quasi inconsciamente un’occhiata pensarono che presto sarebbe ora di trovarle un marito”.

Dunque un altro tram è passato, ma per accompagnare i familiari di Gregor (l’umanità intera?) fuori dalla prigionia, dove la vita rifiorisce.

Difficile non sospettare un legame non soltanto sequenziale, ma anche consequenziale fra i due tram, fra la morte di Gregor e la salvezza degli altri. Soprattutto se, come ritiene Sofri, K. sceglierebbe la variante del tram nella seconda edizione anche perché costituirebbe un’anticipazione del finale.

Eppure Kafka avrebbe subito scritto a Felice che la sua conclusione ’non mi da gioia’. Sofri cita gli aggettivi usati altrove da Kafka: ‘Insoddisfacente’, ‘cattivo’, ‘illeggibile’.

Che Kafka, come fa notare Sofri, provasse, una sorprendente pietà per le ragazze che diventavano donne, donne da marito, aggiunge un’ulteriore sfumatura di ambiguità: in nessun modo infatti il lettore può leggere nel corpo flessuoso di Grete alla fine del racconto l’annuncio di una condanna. L’interpretazione corretta del finale risulterebbe comprensibile solo all’autore e ai pochi ambiguità ai quali Kafka aveva comunicato quella sua inusuale compassione per la trasformazione delle fanciulle in donne. Spiegherebbe però, almeno in parte, la sua insoddisfazione per il finale: il sacrifico di Gregor sarebbe stato inutile, la liberazione dalla pena illusoria.

Neppure a Sofri piace il finale. 
“Ho riprovato a distanza di tempo un disagio quando, alla morte dello scarafaggio Gregor e allo smaltimento del suo cadavere - nella monnezza - la storia non finisce. Un infantile risentimento verso il racconto della vita che prosegue e anzi si rianima dopo che lui non c’è più: un’ingiustizia, o almeno un’indiscrezione. O magari una più irritante impressione che così agonia e morte di Gregor-scarafaggio si trasformino nel sacrificio da cui scaturisce la metamorfosi di sua sorella Grete da fanciulla a donna. Chi ha interpretato il racconto addirittura sulla falsariga della Passione di Gesù ha fatto qualcosa del genere.”

E’ curioso che Sofri usi una parola così impegnativa ed esplicita come ‘sacrificio’ e poi la lasci cadere.

Quella parola appartiene agli strati profondi della religiosità ebraico-cristiana, che offre un orizzonte di senso al sacrificio, accettato in quanto salvifico. 
La salvezza, per San Paolo, è salvezza dal peccato e dalla morte, e il sacrificio della vittima innocente, il Creatore fattosi creatura, è la sua necessaria condizione.

L’insoddisfazione di Kafka e quella di Sofri potrebbero avere a che fare con il rifiuto di questo orizzonte di senso. 
Per Kafka in particolare con il rifiuto di lasciare il sacrificio di Gregor senza conseguenze (salvifiche) e insieme con l’ incapacità di ‘gioire’ per il finale che le descrive. 
Per i cristiani la morte è una rinascita. Forse l’ebreo Kafka avrebbbe scelto un finale ‘cristiano’ del racconto senza riuscire a condividerlo, avvertendone l’illusorietà. Per K. la colpa, senza redenzione, sembra essere ormai quella dell’ “esserci” di Heiddeger, del suo essere gettato nel mondo a decidere fra l’inautenticità esistenziale nel ‘si’ massificato e impersonale e l’autenticità del suo ‘essere per la morte’.
Quella ariosa scena finale, dove tutti sono proiettati verso il futuro e il corpo flessuoso di Grete annuncia una sua futura maternità, gli apparirebbe come una bella favola cui non riesce a credere, l’unica disponibile tuttavia per scongiurare la fine insensata del protagonista.
Ma l’esecuzione finale di K. nel Processo, altra vittima innocente ma senza redenzione, rende molto dubbia l’ipotesi che è stata adombrata nella discussione. 
Il massimo che sembra concesso ai personaggi kafkiani è l’attesa, bussare alla porta, sostare sulla soglia, porre la domanda, attendere e continuare a farlo.
Rimangono i dubbi su quel finale, soprattutto sulla scontentezza dell’autore, questione che Sofri definisce alla fine ‘affascinante ma insolubile’.

Siamo quasi alla fine dell’indagine, e come lo scrittore di Praga anche Sofri aggiunge al racconto una specie di appendice, un ultimo, breve capitolo finale, ‘Finestre’, che come quello di Kafka sembra un racconto autonomo.

Siamo in carcere, in una cella invasa dagli scarafaggi, alcuni dei quali cadono dalle pareti e con i quali Sofri si è rassegnato a convivere. 
‘Il corpo a corpo fra dentro e fuori che attraversa la Metamorfosi e l’intera vita di Kafka…è l’essenza della galera’, scrive Sofri. 
E poi racconta di un anziano detenuto che gli chiede perché accetti di stare in quella cella a pianoterra dove non ci sono finestre mentre da quelle del piano superiore si riescono a vedere le luci della macchine che passano. Sofri non riferisce la risposta, ma racconta che nel maggio del 2017 avrebbe girato Praga in lungo e largo sui suoi magnifici tram.

Non so se Sofri, che ha rifiutato di chiedere la grazia per non riconoscere una colpevolezza che ha sempre negato, sia uscito da quella cella pacificato e ’riconciliato con tutti’. 
Rimane la sua accettazione della condizione di detenuto, senza privilegi, testimone lucido del vissuto di un’umanità che guarda sul soffitto i riflessi delle luci che vanno e vengono.

Si può rischiare di morire per disobbedienza alle leggi come per obbedienza alla loro ingiustizia. Come Socrate. Come ha rischiato lo stesso Sofri, il quale ha ricordato nella discussione Aldo Moro, la sua prigionia, la sua metamorfosi e la sua fine, e ribadito la sua netta opposizione allo schieramento che rinunciò, in nome dello Stato, a trattarne con le B.R. le condizioni per salvarlo.

Adriano Sofri si è consegnato allo Stato, alle sue leggi e ai suoi tribunali, e alla fine alle sue galere. Dichiarandosi innocente del delitto imputatogli e rifiutando esili parigini, domande di grazia, celle singole con vista sul riflesso delle luci che passano. Che dichiara di avere sempre amato.

Sul libro non lo scrive, ma durante la sua presentazione ha spiegato che aveva bisogno di una cella singola per poter leggere e per scrivere. Fra le altre cose, ma questo non lo ha detto, i numerosi articoli che pubblicava su Repubblica, molti dei quali leggevo ai miei studenti.

Sofri dal carcere è stato un testimone della sua disumanizzazione.
Tutti i detenuti innocenti sono come Gregor, e nessuno di quelli che stanno fuori è mai completamente innocente, senza colpa o peccato. Non lo è per San Paolo e non lo è per Heiddeger. Ma soprattutto entrando in carcere chiunque, colpevole o innocente, si trasforma, subisce una degradante metamorfosi.

Molto prima di questo magnifico ultimo libro su Kafka, Sofri quella metamorfosi l’ ha raccontato negli articoli di quegli anni, quando dalla sua cella, da vittima e testimone, descriveva l’universo disumanizzato che subiva e che in qualche modo aveva scelto di condividere. E’ lì forse, in questa estrema prova di solidarietà umana, che va cercato il senso di una  testimonianza morale che ha pochi riscontri nella letteratura italiana.

‘Una variazione di Kafka’ è sicuramente un sofisticato gioco intellettuale e letterario, borgesiano ha notato giustamente Stefano Vivacqua, ma è soprattutto un libro sull’uomo disumanizzato in quanto carcerato, scarafaggio fra scarafaggi, e sulla sua invisibilità. 
Non è necessario chiudere borgesianamente la letteratura su se stessa per renderla buona. Sofri, e non con questo libro per la prima volta, lo dimostra. La leggera smorfia di disagio quando qualcuno lo ha accostato a Sciascia e Pasolini tornerà spesso sul suo volto.

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