"SONO ORLANDO E VOLEVO ESSERE AMATO" di Giandomenico Vivacqua

Orlando

Scialacquati gli ardori ginnici della gioventù littoria, la locale stazione degli autobus amministra uno scarso peculio di arrivi e partenze per l’impazienza degli studenti fuorisede, che ha tutto il tempo di ricamarsi in brufoli barocchi.
La donna è graziosa, compunta, estremamente orientale. Nello zaino, oggetti inverosimili, che sull’europeo esercitano la stessa straniante fascinazione delle perline di Colombo sui nativi americani: catarrose radioline, piccoli elettrodomestici dal voltaggio anemico, balocchi conformi alle severe normative comunitarie quanto possono esserlo l’oppio o i lanciamissili terra-aria.
L’uomo ha la sua tecnica. Procede obliquo, il capo in avanscoperta col vessillo della capigliatura che garrisce il trionfo di ogni metro di mondo conquistato alla sua irrefrenabile marcia.
Che straordinario appuntamento!
Lui è affilato, elegante. Un picaro elegante. Solcava un tempo il suo petto nudo un largo medaglione in cui lampeggiavano, rifuse insieme, tutte le decorazioni di una vita di battaglie onorate.

Lei ha straforato una muraglia millenaria, un regime cadaverico, ha esposto la sua fragilità d’acciaio alla vertiginosa accelerazione della macchina del tempo. Oggi incrocia la nostra compassionevole curiosità con le sue reliquie da preistoria industriale; la sua armoniosa mendicità è un volo incerto e disperato verso il declinante benessere occidentale.
Lui vende la fortuna: schedine del totocalcio precompilate. Il suo è un percorso inverso: una fuga impenitente dal decoro ministeriale dell’impiego paterno verso l’avventuroso sbaraglio dell’indigenza.
Che incredibile appuntamento! Due così - due lancette dissociate sul quadrante della storia - due così non potevano non incontrarsi. Anche il luogo è passabilmente appropriato: la stazione degli autobus, che invulva e ripartorisce gli esseri umani nel travaglio diesel del novecento.
Salgono insieme sull’autobus del desiderio che lui non sapeva di dover prendere. Lei gli ripaga una galanteria con l’alba di un sorriso che tramonta in fretta. Lui saprebbe come far breccia in questa piccola roccaforte orientale; ha l’istinto ancora integro e lo sa a memoria come si scivola dietro la Grande Muraglia della diffidenza femminile.
Chi è il vecchio che rastrema con la lingua scabrosa il cancello malato dei denti? Chi lo ha mandato? Possibile che anche questo insulso vecchio faccia parte del piano? Non è un nemico onorevole, guardatelo: seduto sull’autobus, convenientemente nel posto riservato agli invalidi, riceve i passeggeri ammiccante, ruffiano: il ragioniere di un postribolo; è lì, come se fosse stato sempre lì e dovesse restarci per sempre: un repellente animale mitologico metà uomo e metà sedile d’autobus. Osserva i due, mentre continua a passare in rassegna la sguarnita compagine della dentatura, oscillando il capo in segno di prossenetica approvazione. All’improvviso ritira la lingua nella catramosa oscurità orale, cala sull’esercito in rotta dei denti un sipario di labbra flaccide, solleva il mento, scopre un collo basedowiano, assume l’aria supponente di un sinedrita. La sconcertante metamorfosi rapisce uno sguardo della donna. Quanto basta. Rapido, con una scudisciata maligna degli occhi uggiosi il vecchio indica l’uomo, solleva la mano mulinando due volte nell’aria pollice indice e medio: né verticalmente, nel segno della follia, né orizzontalmente, nel segno del furto: ambiguamente a metà.
Ora la donna arretra di un passo, nel riflesso di un istinto antico, stringendo forte il sacco delle meraviglie cinesi.
Ora l’uomo, che ha visto, scende dal mezzo ferito a morte.
Ora il vecchio si scompone in una risata oscena e sgangherata. L’autobus che parte sembra sussultarne.

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Io volevo essere amato dagli agrigentini, per quello che ero. Dico “ero” perché sono cinque anni che ho chiuso con le turiste. Sono stato in servizio trentatré anni, dai quattordici ai quarantasette, ma da quando è morta mia madre ho chiuso.
Mi chiamo Orlando Randisi, sebbene la mitologia di questa città prescinda dal mio cognome. Sono Orlando, tutto qui. Sì, volevo essere amato, ma l’umanità mi ha deluso, il genere umano nel suo complesso. Particolarmente gli agrigentini. Quel vecchio avrei dovuto denunciarlo, chiamare la polizia. Non sono un ladro! La cattiveria di questa città continua a colpirmi, ancora adesso che ho chiuso con le straniere e faccio un mestiere umile, umiliante, adesso che per vivere complilo le schedine, le chiudo in busta e le vendo alla gente: la busta della fortuna. E’ una mia idea. Ogni mattina sono in giro: Agrigento, Porto Empedocle, Siculiana, e più lontano: Modica, la provincia di Trapani, di Palermo. Devo spostarmi continuamente, ogni giorno un paese diverso, un’altra città, ché altrimenti la gente si stanca e non compra più le mie buste. Ogni sera devo rientrare, per via dei gatti di cui mi occupo: sono tanti, li sfamo, li curo; alcuni vivono con me, altri li visito dove vivono. Cinquantamila lire al giorno: la loro sopravvivenza biologica, e la mia, è un problema meteorologico, ché se piove non vendo nulla. E’ molto penoso. Ma che posso fare? Viva mia madre, c’era la sua pensione; oggi sono ridotto a questo: la busta della fortuna. Per la verità io sono elettricista: elettrotecnico diplomato; ma non saprei badare alle carte, alle fatture. Non fa per me. Io per lo Stato non esisto, non sono iscritto da nessuna parte: un fantasma; niente io per lo Stato, niente lo Stato per me.
Lo so di camminare sul filo, ma ognuno è come è.
Mio padre era usciere capo in prefettura, decoroso, dritto. Andavamo d’accordo. Lui era di Siracusa, poi ha fatto servizio a Messina, dove io sono nato. Ad Agrigento siamo venuti che io avevo sette anni. Qui sono cresciuto, ma restando sostanzialmente un estraneo, un intruso. Avrei voluto che questa città mi amasse, per quello che ero, per quello che facevo e per il modo in cui lo facevo. Sì, parlo del mio lavoro con le turiste. Ma questa città mi ha voluto distruggere, col disprezzo, la maldicenza, la mediocrità. Io ero unico nel mio lavoro. Trentatré anni, un fiume di donne. Conoscevo gli orari d’arrivo di tutti i treni: io ero lì - francesi, tedesche, olandesi - ero lì - nessuna tecnica precisa, nessuna parte recitata a memoria - inglesi, americane, giapponesi - ero sempre lì. Mi ha aiutato la conoscenza delle lingue, ché io ho viaggiato molto. Il tedesco ha quattro casi, due meno del latino: è una lingua complicata; ad esempio, lo stato in luogo, che in latino si rende con l’ablativo, in tedesco lo costruisci col dativo. Il russo anche ha i casi, ma sei, come il latino. La vita è dura. Io studio, sempre - anche se non ho finito il liceo -, studio da me: biologia molecolare, astrofisica. Sono appassionato di letteratura ferroviaria, modellismo. Mi sono sempre fatto molte domande. Ma chi si interroga soffre.
Ho nostalgia delle mie donne, con alcune sono stato per dei mesi, con una due anni, addirittura. Mi innamoravo, e di conseguenza soffrivo: una sofferenza moltiplicata per il numero delle mie avventure. E facevo soffrire. La mia natura mi complicava la vita, mi impediva di accontentarmi, di placarmi. No, non ho mai avuto una donna di qui, né mai ho pensato di sposarmi: come possono convivere due sistemi nervosi diversi? Mi madre soffriva per me, voleva che mi sposassi, che la finissi con le straniere. Però ogni volta che gliene presentavo una nuova, lei si compiaceva del mio successo, era fiera di me.
Personalità, magnetismo, fascino, intelligenza? Chiamalo come vuoi: io non cercavo di apparire in un certo modo: ero, cioè sono nel mio modo. Perdona l’immodestia, io sono unico. Hanno cercato di imitarmi, ma dove sono gli eredi di Orlando? Allora hanno cominciato a distruggermi, con la calunnia. Ma perché? Io rendevo un servizio a questa città: amavo le donne sole in cerca di umanità e di verità, senza finzioni, senza maschera. Agrigento era uno scenario perfetto per il mio lavoro: i templi, il mare, le trattorie. Suonavo la chitarra, avevo un gruppo di amici, tutti andati via, compreso Paolo che era una specie di allievo, di discepolo, tutti via: sposati, emigrati, sconfitti.
Avrei voluto che questa città mi amasse, invece mi giudicava per la camicia sbottonata, per gli zoccoli, il medaglione: ma quello era il mio stile, senza nessuna affettazione, ero io, io, Orlando.
Ora vivo da eremita, con i gatti, che mi amano, non per gratitudine - perché li sfamo - ma perché sono esseri degni, migliori degli uomini. Lo so che questa è una banalità, un luogo comune, ma bisogna avere la mia esperienza per potersi permettere il lusso dei luoghi comuni. Forse tu pensi che io abbia trasferito freudianamente sui gatti la mia passione per le donne, ma non è così. O forse sì, chi lo sa?
Mio fratello, che fa il magistrato a Lucca, ed è vicino alla pensione, mi ha comprato la casa dove abito; mi manda dei soldi ogni tanto, mi vuole bene: vorrebbe che io lavorassi. Non so cosa farò, il futuro non riesco a vederlo. Forse fra un anno ritornerò alla grande con le turiste, o radicalizzerò il mio eremitaggio.
Cosa c’è in quel sacco? cibo per gatti: per i miei? Ti ringrazio a nome loro.

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