QUELL'ITALIA BELLA PERCHÉ POVERA di Pepi Burgio

Chissà perché, però miseria e povertà non sono esattamente sinonimi. La prima imbarbarisce, acceca, la seconda è sopportabile, dispone all’essenziale, impegna severamente la ricerca della misura, può educare a molte virtù. Pasolini negli “Scritti corsari” ha scritto: Ormai da

molto tempo andavo ripetendo di provare una grande nostalgia per la povertà, mia e altrui, e che ci eravamo sbagliati a credere che la povertà fosse un male. In lui la distinzione era chiara, molto chiara. Della miseria, sottratta alla dimensione meramente sociologica, coglieva la continuità nella metamorfosi antropologica del consumismo e nella mentalità piccolo-borghese che ad esso è connaturata. Fino al punto di irritare oltremodo la coscienza della più attrezzata “intelligencija” antifascista nostrana, quando nel 1973 aveva osato affermare: Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambiata. Apriti cielo. Ricordo le accuse: supponenti, puntute, feroci. Pasolini, nel migliore dei casi, fu incolpato di coltivare pericolose nostalgie regressive. Soltanto pochi anni dopo, l’Italia che già aveva conosciuto la frenesia dello “sviluppo” e la labilità del “progresso”, sarebbe stata squassata dallo strazio di via Fani, ennesima evenienza drammatica dell’anomalia della sua disgraziata storia.

Scrivo queste quattro cose dopo avere appreso di recente che anche un altro irregolare della cultura italiana, Leo Longanesi, ben prima di Pasolini, e soprattutto in anticipo sul cosiddetto miracolo economico, aveva pronunciato parole profetiche circa l’avvenire del nostro paese. Chissà perché, però, assimilando miseria a povertà.

Scrivo queste quattro cose preoccupato per il crescente, inarrestabile imbruttimento dei luoghi che ogni giorno attraversiamo, già irrimediabilmente sfregiati dalla smania edificatoria dei decenni precedenti; e per la sconcezza e la laidezza non più scansabili, tanto esse, nella loro pervasività, hanno ormai occupato numerosi spazi residuali. Ed anche perché timoroso e mortificato dalla prospettiva di offrire questo spettacolo-incubo a quanti verosimilmente verranno nelle prossime settimane.

Ma torniamo a Longanesi, al suo sguardo lungo, telescopico. Nel gennaio del 1957, pochi mesi prima della sua scomparsa, così scriveva: La miseria è ancora l’unica forza vitale del Paese e quel poco o molto che ancora regge è soltanto frutto della povertà. Bellezze dei luoghi, patrimoni artistici, antiche parlate, cucina paesana, virtù civiche e specialità artigiane sono custodite soltanto dalla miseria. Dove essa è sopraffatta dal sopraggiungere del capitalismo, ecco che si assiste alla completa rovina di ogni patrimonio artistico e morale. Perché il povero è di antica tradizione e vive in una miseria che ha antiche radici in secolari luoghi, mentre il ricco è di fresca data, improvvisato, nemico di tutto ciò che lo ha preceduto e che l’umilia. La sua ricchezza è stata facile, di solito nata dall’imbroglio, da facili traffici, sempre o quasi, imitando qualcosa che è nato fuori di qui. Perciò quando l’Italia sarà sopraffatta dalla finta ricchezza che già dilaga, noi ci troveremo a vivere in un paese di cui non conosceremo più né il volto né l’anima. Nel ’57, da non crederci.

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