AGRIGENTO 2020. AGIRE COME SE FOSSE CAPITALE DELLA CULTURA di Giovanni Taglialavoro
Agrigento è il sud-ovest dell'Italia, anzi il suddovest, non proprio il paradiso terrestre, ma l'estremo lembo meridionale dell'occidente che riflette, nelle sue potenzialità e nei suoi limiti tale connubio, proponendosi come il luogo laboratorio dove i guasti di una cattiva modernità si sono sommati ad un'immobile arcaicità e dove, al contrario, le potenzialità dell'albero del futuro possono trovare radici feconde. Da quando è stata lanciata la candidatura della città a capitale italiana della cultura 2020, sono pervenuti centinaia di appoggi pubblici di personalità della cultura e dell'arte, del giornalismo e dello spettacolo, delle professioni e della economia.
Da Andrea Camilleri a Roberto Gervaso, da Andrea Bocelli a Pietro Folena, da Pippo Baudo a Michele Guardì, da Andrea Carandini a Simonetta Agnello e Giuseppe Vita: parole d'amore per la città, di stima, e soprattutto di fiducia nella sua capacità di voltare pagina e di guardare ad un futuro diverso.
Su questo punto ci sembrava che Agrigento potesse essere competitiva rispetto alle altre finaliste, sulla sua volontà di cambiare, aspetto non a caso rimarcato dalle dichiarazioni introduttive alla proclamazione di Parma.
Sapevamo che la nostra antica cattedrale, chiusa da anni, rischia di franare, che i nostri giovani andranno per lo più a trovare lavoro al nord o in altri paesi europei, eravamo consapevoli che gli standard di alcuni servizi sono insufficienti, non avevamo dimenticato che è nostro inderogabile compito rimediare ai numerosi sfregi urbanistici subiti nei decenni scorsi dal nostro territorio, insomma ci era chiaro che non potevamo aspirare a diventare capitale della cultura come riconoscimento degli attuali livelli civili, sociali e culturali, ma solo come accompagnamento di un processo di rigenerazione globale della nostra città che aspirasse a farsi modello della nuova Italia e dei tanti sud europei che troppo hanno sacrificato alla modernità e troppo, da e per essa, sono stati sacrificati.
Volevamo essere riconosciuti come capitale italiana della cultura in nome di un progetto, come fiducia ad una sfida che vogliamo lanciare intanto a noi stessi e poi alle classi dirigenti nazionali senza l'appoggio delle quali risulterebbe vano e velleitario ogni proposito di riscatto e rigenerazione.
Vogliamo camminare con le nostre gambe, ma abbiamo bisogno di un abbrivio e di un sostegno a distanza.
Ecco un aspetto del nuovo sud che vogliamo rappresentare: non più piagnone, non più assistito, ma autopropulsivo, e senza separatismi ribellistici, dentro nuovi patti nazionali ed europei.
Ed era una prova della novità di un tale approccio il fatto di puntare ad avere come abbrivio non grandi opere pubbliche, non finanziamenti a pioggia, non infrastrutture destinate a restare incompiute o inutilizzate (questo appartiene al passato e ai suoi fallimenti), ma la cultura, la produzione e la fruizione consapevole della cultura. Non si tratta di contrapporre il 'philosophare' come primum rispetto al 'vivere': noi crediamo che nelle condizioni in cui siamo si può tornare a vivere soltanto filosofando.
Del resto avevamo un esempio illustre a cui rifarci: dopo il terribile terremoto del 1693, che distrusse gran parte della Sicilia orientale, i gruppi dirigenti di allora, un po' spagnoli e un po' siciliani, decisero di pianificare la ricostruzione dei diversi paesi a partire dalle loro chiese madri: era con esse, nella loro dimensione simbolico-religiosa, in ultima analisi, culturale, che la comunità dispersa si sarebbe ricostruita e riconosciuta.
E la felicità, la fecondità di quella scelta è ancora testimoniata dalla bellezza che ne è scaturita, oggi riconosciuta come uno dei patrimoni mondiali dell'umanità: il barocco siciliano, quello di Catania, Modica, Ragusa, Scicli e soprattutto Noto.
Ecco, anche noi volevamo e vogliamo ricostruire la nostra città a partire dalla chiesa in senso lato che è la cattedrale da risanare e riaprire, che è il suo arcivescovo cardinale Francesco Montenegro che rilancia Agrigento come luogo dell'accoglienza e dell'incontro tra popoli, che è il suo parco archeologico e paesaggistico tra i più belli del mondo, che è la grande eredità dei suoi scrittori più famosi Pirandello, Sciascia e Camilleri le cui pagine vivono anche nelle strade, nei vicoli e nei modi di sentire e ragionare dei miei concittadini.
La cultura insomma non come 'un di più', un premio, ma come condizione della rigenerazione.
Ecco il rovesciamento del paradigma: non dunque la città che invoca assistenza, finanziamenti, soldi pubblici, capitali a fondo perduto, consumi senza responsabilità, ma che al contrario cambia approccio coi suoi beni, li riconosce, li tutela li rigenera, decostruendo e risanando anche, laddove risulti necessario, e chiede sui fatti acclarati di rinascimento un abbrivio nazionale, una disponibilità dei gruppi dirigenti nazionali a scommettere sul nuovo protagonismo civile.
Per questo ci piaceva che Agrigento venisse riconosciuta capitale italiana della cultura 2020. Per questo dobbiamo agire come se lo fossimo.