QUELLA DOCILE GAIEZZA DI DADA di Giorgia Cuffaro
Molli ricci d'ebano. Io non so contare, ma, credetemi, neppure un uomo sarebbe capace di contarvi tutti. A che mi serve, del resto? Siete solo l'ingombro del mio stomaco, fitti e pesanti, premete con durezza sul mio legno, quasi non vi accorgeste di essere più robusti voi che non il mio corpo malathion di crepe.
Ad ogni onda sento con insistenza la mancanza del mio porto e del suo sole sempre identico. Dei raggi che battevano a prua e abbagliavano di luce calda l’acqua tesa.
Di quelle notti libiche spese a scoprire fughe spicce e silenziose, prima di divenirne io stesso schiavo, costretto dallo schiacciante peso umano che ora fingo di saper trasportare.
È ormai da due lune che le onde bizzose sembrano sfidarmi.
Non capiscono quanto sia stanco? Quanto sia gracile?
Eppure il mio pescatore mi ha insegnato ad avere fiducia nei flutti selvaggi, sono loro che ora mi governano. Dove sei, padrone Alì? Che ne sarà di me senza un nocchiero? Un invasore ha impugnato il timone. Sento il suo fremito, un comandante non ha mai paura. Nient’altro che un ciarlatano temerario riesce a stento a mantenermi a dritta. Nessuna bussola, nessuna esperienza, solo straripante paura verso un disperato ardimento.
Fra tutti i gravi che mi brulicano sul petto di uno -una bambina, mi è sembrato- riconosco una docile gaiezza infondata.
Nessuno quassù conosce il suo nome, così l'ho chiamata Dada.
Sono leggeri i suoi sogni, come la sua figura minuta.
Fluttua la sua acerba fantasia tra i suoi molli ricci d’ebano.
Come me, Dada non patisce il mare.
Nel suo ignaro assopirsi vivono già quei luoghi proibiti che nessuno degli svegli ha raggiunto. Profuma di limoni e sussurra un carezzevole «welkom» la terra evanescente su cui si sdraia la sua utopia, come il suo piccolo corpo sul mio albero spezzato.
A poppa Ebo stringe la mano fredda di sua madre, stremata dal pianto e dalla veglia prolungata. Mentre con un gesto miete quelle lacrime ostinate, chiude gli occhi e vede mille colori. Sono quelli delle loro maglie intrise di sale, pensa, immaginando di librarsi abbastanza da poterle osservare dall'alto sulla mia sagoma traballante.
Sempre da quella vivida prospettiva impossibile scorge come una matassa che si dipana presto in un gomitolo.
Apre gli occhi. Vede davvero un filo, è l'alba.
E distingue anche l'intero gomitolo, un'isola.
Ebo è grande, conosce bene il nome del sogno di Dada.
Quella reale invenzione è Lampedusa, è lì che il mio impetuoso comandante sa di dovermi condurre, è fino all’assurdo compimento di un'illusione che so di dover resistere. E ti assicuro, padrone Alì, che non mi avrai venduto invano, che mi lascerò soffocare dal nostro mare solo dopo aver consegnato Dada al suo miraggio ed Ebo al suo gomitolo variopinto. E con esso tutti voi passeggeri tesserete trame.
Dal mio naufragio, dal nostro addio comincerà il vostro divenire.
So bene che di questo viaggio non ricorderete che tremori e languidi sospiri e che di me non conserverete che la tetra immagine di un precario peschereccio abbandonato. Ma tu, Alì, tu saresti fiero se solo sapessi dopo quale impresa sprofonderò per sempre nelle viscere di questo mare, mio nuovo ed eterno comandante.
*studentessa del Liceo Classico Empedocle