RICORDO, SI' RICORDO I BAMBINI E LA FESTA DEI MORTI di Pepi Burgio
Bella l’infanzia, non solo per chi ha avuto una bella infanzia, ma anche per quelli che ne hanno avuto una nient’affatto bella. Una volta nel giorno dei morti, a dispetto di novembre, molto presto al mattino i bambini scatenavano per le strade un’euforia incontenibile e contagiosa, che ancora oggi, al solo ricordo, mi assale gradevolmente. I morti e i bambini, che insieme celebravano la loro festa, per un giorno piegavano gli adulti al rito del dono: una lacrima, un cero, una fiore, dei pattini, il cavalluccio a dondolo, una pistola, o più semplicemente la trottola di legno costruita con sapienza col tornio del falegname amico. Poi tanti dolciumi, alcuni assai graditi dai bambini (beatamente ignari delle insidie della carie e del tasso glicemico), addentati con voracità, non prima di essere ammorbiditi con giudizio dalla saliva. Non so se ancora oggi queste delizie proletarie vengono indicate col lessico degli ortopedici (calcagnetti) o dei necrofori (ossa di morto).
Ed oggi che da tempo immemorabile quei bambini non sono più tali, i morti definitivamente morti, e le facce di una volta irrintracciabili, assieme ai corpi che le sostenevano, guastati irrevocabilmente dal genocidio consumistico, vien voglia di rifugiarsi ancora una volta, al modo crepuscolare, nella letteratura.
Vladimir Nabokov, in un romanzo autobiografico del 1947, Parla, ricordo, con accenti diversi così ha detto dell’infanzia e dei morti.
Il mio disprezzo per l’émigré che odia i Rossi perché gli hanno rubato soldi e terre è assoluto. La nostalgia che ho serbato nel cuore in tutti questi anni è un senso ipertrofizzato dell’infanzia perduta e non il dolore per le perdute banconote.
E qualche pagina prima: ogni qualvolta i morti mi appaiono in sogno sono sempre muti, infastiditi, stranamente depressi, molto diversi da quegli esseri vivaci e affettuosi che erano in vita. Li ritrovo, senza il minimo stupore, in circostanze che essi non hanno mai vissuto nel corso dell’esistenza terrena, in casa di qualche mio amico che non hanno mai conosciuto. Se ne stanno seduti discosti, fissando accigliati il pavimento, come se la morte fosse un’onta, un vergognoso segreto di famiglia. Non è certo allora - non in quei sogni - ma piuttosto quando si è ben desti, nei momenti di gioia intensa e di vera conquista, quando ci si trova sul più alto terrazzo della coscienza, che la caducità ha modo di scrutare oltre i propri limiti, dall’albero di maestra, dal castello del passato, dall’alto della torre. E pur non riuscendo a vedere molto attraverso la foschia, si ha in qualche modo la sensazione beata di guardare nella direzione giusta.
Ai bambini, ai morti.