PROSSIMITA' di Tano Siracusa

I primi nordafricani sono apparsi ad Agrigento negli anni ’80 e un po’ per tutti erano i ‘vu cumprà’. L’espressione, coniata in una trasmissione di Renzo Arbore, circolava in un paese appena uscito dall’incubo del terrorismo brigatista e che relegava la mattanza mafiosa in Sicilia nel repertorio delle eccentricità criminali dei suoi abitanti.

Per alcuni di noi quell’espressione, bonariamente derisoria, era spiazzante. Avevamo conosciuto i marocchini in Marocco: quasi tutti almeno bilingue, chiacchieroni arguti, e ci erano subito piaciuti il loro tempo rallentato, la loro curiosità, il gusto di conoscere e farsi conoscere, l’allegria dei ragazzi, la saggezza degli anziani, il pudore e la malizia delle donne, il senso dell’ospitalità tanto più autentico quanto più erano poveri. E poi i colori, gli odori, le atmosfere di un paese che ricordava la Sicilia della nostra infanzia: non li riconoscevamo nei ‘vu cumprà’.
Poi in città sono arrivati i neri, soprattutto senegalesi, che a metà degli anni ’90 abitavano i piani terra di alcune vie del nostro centro storico. Cinque, sei letti in un catoio dove pochi decenni prima dormivano anche gli animali. Di quella prima generazione alcuni sono rimasti in città con il loro negozietti ambulanti, altri sono partiti per chissà dove, qualcuno è riuscito a trovare un lavoro stabile, come Francis, profugo ad Agrigento dal Congo in fiamme e poi assunto stabilmente come mediatore linguistico e culturale da una di quelle cooperative che gestiscono l’accoglienza. Non tutti i centri di accoglienza infatti speculano sulla malasorte dei migranti, come non tutti i siciliani sono mafiosi. Alcune di quelle cooperative fanno il possibile con le risorse disponibili per avviare percorsi di integrazione. 
Sono passati una trentina di anni dall’arrivo dei primi ‘vu cumprà’ e da allora è cambiato il mondo, l’Italia, le nostre città. Da allora una parte crescente dei poveri del pianeta ha cominciato a riversarsi nei paesi ricchi dell’Occidente, in fuga da guerre, dittature, dalle persecuzioni delle etnie maggioritarie, dai cambiamenti climatici, dalla miseria. I siciliani, i veneti, un secolo fa fuggivano ’soltanto’ dalla miseria.   
E’ facile prevedere che questo processo durerà fino a quando dureranno l’attuale disordine mondiale e l’enorme distanza fra paesi ricchi e paesi poveri che in gran parte lo alimenta. 
Con internet il mondo è diventato molto piccolo e dentro vi circola un flusso alluvionale di informazioni, una rappresentazione dissonante, multiforme e spettacolarizzata della realtà planetaria, circolano idee, capitali, risorse immateriali. Gli unici che non possono circolare liberamente sono gli uomini in carne ed ossa se sono poveri, e i poveri sono qualche miliardo di individui. Difficile immaginare muri, barriere, fossati, prigioni e campi di concentramento che possano impedire questo travaso di popolazione in un mondo così rimpicciolito.
Agrigento, al centro del Mediterraneo, è diventata inevitabilmente una città che sperimenta più di altre questa pacifica invasione, e forse più con indifferenza che con diffidenza o paura. Non sembra che ad Agrigento la presenza massiccia di altre etnie venga collegata al tema della sicurezza. Forse perché spaccio e prostituzione ci sono sempre stati e non sono certamente gli immigrati ad averli importati. Forse perché gli affari grossi sono saldamente nelle mani della delinquenza locale. E la mafia, come si sa, è ‘cosa nostra’. Forse perché le risse del sabato sera hanno per protagonisti giovanotti, a volte studenti, che prediligono lo scontro indentitario con rappresentanti di  comunità territorialmente prossime, come Favara o Porto Empedocle. 
Qui la rappresentazione salviniana delle cose ha pochi riscontri. 
Piuttosto da quando la sponda meridionale e orientale del Mediterraneo, ad eccezione in parte del Marocco, è a rischio, in città le presenze turistiche aumentano. A quegli europei che amavano i colori e gli odori dell’Africa settentrionale il centro storico di Agrigento offre un discreto surrogato delle atmosfere delle Medine. Tanto da determinare inedite dinamiche di mercato: non si trovano più appartamenti in affitto in centro storico da quando i proprietari preferiscono  affittare ai turisti e agli stessi immigrati. Pagano di più: l’immigrato il piccolo pianoterra, il turista l’appartamento ai piani alti. E intanto le aule scolastiche si vanno riempendo di bambini di colore che in centro storico poi il pomeriggio giocano con i loro pallidi coetanei. 
Non è un quadro idilliaco: finora più che un inizio di integrazione culturale sembra essersi determinata una pacifica coesistenza fra le diverse entità etniche residenti in città e i suoi abitanti storici. 
Non è detto che sia l’inizio di un processo di integrazione. A Mazara del Vallo, dove risiede la più antica e percentualmente più grossa comunità di tunisini in Italia, non si può parlare di integrazione, ma di una enclave etnica e culturale, con i suoi negozi, i suoi bar, il suo pezzo di casbah. I bambini che giocavano assieme alle elementari, cominciano a separarsi da adolescenti, e la sera per strada i giovani mazaresi e i giovani tunisini passeggiano separati. A differenza di Marsiglia o di Barcellona, per restare nel Mediterraneo, a dimostrazione che la mancata integrazione non è destinata. 
Forse un vero processo di integrazione (non di assimilazione) può essere avviato solo quando da entrambe le parti al posto della indifferenza, della diffidenza o della paura, è la curiosità ad orientare il rapporto con l’altro. Quella che ancora nei primi anni ’80 spingeva molti occidentali in Africa, in India, in America Latina e che si specchiava nella curiosità degli altri. 
Su questo piano qualcosa le istituzioni, ma anche il circuito culturale privato potrebbero fare, impegnandosi a costruire la premessa di ogni incontro e reciproco riconoscimento, di ogni realistica integrazione. Che non è soltanto la conoscenza da parte dei migranti della nostra lingua e cultura, ma anche la curiosità nostra per la loro identità culturale. Esiste una produzione artistica e culturale sulle sponde meridionali e orientali del nostro mare molto ricca e vivace, molto giovane come lo sono quelle popolazioni, e di cui sappiamo poco. Cinema, letteratura, arti plastiche e figurative, musica.
Una città come Agrigento offrirebbe una cornice ideale per ospitare e far conoscere la storia, l’arte e la cultura dei figli e dei nipoti dei primi ‘vu cumprà’.