I CAMMINI INTRECCIATI DI FRANCESCO RANDAZZO di Alfonso Lentini
«Aperta nel cielo / sul mare / fra le nuvole / d’indaco impossibile / una porta perfetta / di sette / colori. / Ho volato / dentro / quell’arco, / baléno del miocardio, / e cadendo / qualche ora più tardi / non ho saputo dirti / con parole / dove / ero stato / io con te. » Questi versi di lampante bellezza (che spezzano in due un arcobaleno e raccontano sommessi l’intensità di un momento d’amore, rifuggendo dal poetichese di maniera) si trovano fra le pagine di Alito e calce1, libro appena pubblicato dalle romane edizioni Ensemble.
L’autore è Francesco Randazzo, un uomo di teatro (drammaturgo, regista, attore…) proveniente da solida scuola (quella di Giuseppe Di Martino prima e quella dell’Accademia Silvio D’Amico poi). “Siciliano della diaspora”, come lui stesso si definisce, Randazzo è nato a Catania ma ha fatto di Roma l’epicentro della sua vita e gira liberamente il mondo (con il corpo, quando capita; oppure con le sue opere, che poi è quasi la stessa cosa).
Teatrante fra i più sopraffini e consapevoli, è un negromante di parole, ma di parole speciali, inzaccherate di sipari, riflettori, azioni, soffi, gesti.
Eppure nella sua arte, in percorsi intrecciati, c’è anche dell’altro. Accanto alle “parole sporche” del teatro, nella sua ricerca troviamo anche parole nude, cioè la scrittura autosufficiente – quella senza palco, microfoni o reti protettive – frutto di un lavoro (o lavorìo) che Randazzo da sempre affianca, in percorso parallelo, a quello, forse più spettacolare, per il quale è maggiormente noto.
Scrittura e teatro – si sa – hanno molti punti di tangenza, ma non sono la stessa cosa. Specialmente se, come nel caso di questo suo nuovo libro, Alito e calce, parliamo di parola poetica, cioè di una parola giocata in tutto e per tutto sulla sua assoluta autonomia, sulla sua “astanza” fisica.
Ma prima di pubblicare questo volume di natura estremamente rarefatta e quasi impalpabile, Randazzo ha pubblicato anche importanti libri più apertamente narrativi, fra i quali va ricordato quell’intenso Tu non lo sai da dove vengo2 fondato invece su una trama tortuosa che descrive per filo e per segno, cioè con fluidità di racconto, un’arruffata scorribanda nei labirinti della notte all’inseguimento di un indirizzo forse inesistente, via Canfora 91, meta mobile e imprendibile. Ci sono due personaggi, uno è un vecchio puzzolente, forse matto ma affascinante, stralunato, pretenzioso, volgare, eppure nello stesso tempo sapiente di sapienza arcana; l’altro è quello che guida una Clio scassata quasi da rottamare e che si trova costretto ad accogliere a bordo lo strano vecchio. In piena notte, sulla spinta di vaghe indicazioni fornite da quest’ultimo, i due si abbandonano a un vagare sconnesso e visionario verso un finale che a poco a poco assume mille valenze allegoriche, sino a tingersi nelle ultime pagine di colori assolutamente fiabeschi. Un’odissea nello spazio slabbrato di una Catania che sembra sbucare da un sogno pur mostrandosi terribilmente vera. Un viaggio lunare, poetico e drammatico. Straniante, spiazzante. Beckettiano. Tu non lo sai da dove vengo si presenta perciò come un romanzo breve, ma potrebbe funzionare benissimo anche come un monologo teatrale, intriso com’è di una lingua sonora, sporca di parlato, tinta di “espressionismo”, concitata e comica al punto giusto.
Ben diverso è il caso di Alito e calce. Qui siamo in un ambito dove i sottofondi narrativi evaporano quasi del tutto a vantaggio di semplici frames, squarci, velocissime accensioni.
Qui, più che al continuum del teatro o al flusso narrativo, siamo vicini alla prassi dell’inquadratura fotografica. Sì, perché vi è una modalità poetica che somiglia molto al gesto dello scattare una foto. Nell’inquadrare un’immagine, l’obiettivo la ritaglia, sottraendola a tutto ciò che nel mondo reale vi sta intorno. Ma il valore di una foto sta proprio nel vuoto che la contorna. L’isolamento di un particolare è una sorta di procedimento “metonimico” che aggiunge forza all’immagine. Così avviene in una certa poesia (penso ad esempio a Sandro Penna, Bartolo Cattafi o, più vicino ai nostri tempi, ad Alessandro Fo), dove i versi emergono da un vuoto che li contorna e la parola rimane sola davanti a se stessa, fugge via da qualsiasi palcoscenico, ripudia ogni gestualità ornamentale e vive generando sensi e sottosensi soltanto grazie ai suoni che si inseguono, si intrecciano, si rispecchiano continuamente. La parola, insomma, diventa essa stessa “gesto”.
In versi di perfetto equilibrio formale leggiamo: «Aglaìa / luce su metallo […] / tu / lama mia», e ci sembra che il nome “Aglaia” si insinui serpentino nelle altre parole e voglia quasi abitarle. Aglaia, che è anche il titolo della sezione di apertura del volume, è un nome mitologico, appartiene a una delle tre Grazie, ma è anche il nome di una farfalla (e, se vogliamo far tre, è il nome di un personaggio dostoevskijano…). Tuttavia se volessimo usare questo nome come un grimaldello per penetrare nel segreto dei versi, allora nessuna di queste ipotesi potrebbe servirci. Aglaia qui è semplicemente un nome femminile, a indicare semmai un tema che marca fortemente questa raccolta, cioè il tema amoroso. Ma i versi d’amore che Randazzo ci regala sono intrecciati a un mutevole sguardo sul mondo e giungono da lontano, forse addirittura dalla remota poesia arabo-siciliana (molto amata dal nostro autore), attraversano Petrarca, sfiorano le dismisure del Barocco, sino a lambire il Novecento e l’onda lunga delle Avanguardie.
L’amore dunque diventa un periscopio attraverso il quale rilevare i mutamenti del mondo. E forse anche del corpo: «Note d’inchiostro bianco, / Qoèlet e affanno, / frutta secca marcita / e le dita, le dita che non sanno / contare il tempo e la misura. / Suona un vuoto senza fine / e la cavea del corpo s’abbandona. »
Nelle quattro sezioni di cui si compone il volume i testi sono raggruppati per criteri tematici, ma la varietà è notevole.
A poesie furibonde, di forte carnalità («Vorrei scoparti con furiosa calma, / accenderti di sangue nella carne,[…] / clonarmi in te, fondendoci fottendo.[…] dipingerti madonna e poi puttana…») si alternano composizioni più meditative: «Una volta, una soltanto, / saper dire e nel dire / esistere, / così, per un nulla, / così poco da essere per sempre. »
Incontriamo citazioni petrarchesche dove però, si badi, al contrario di un celebre sonetto, qui è la donna che passeggia “sola e pensosa,” e sembra sostituire o replicare il Poeta del Canzoniere, mentre l’uomo che nei versi parla in prima persona si limita a “non trovare schermo”, indifeso com’è di fronte a lei, limitandosi a sussurrarle, un po’ ritoccandoli, i celebri versi: «…e tu / passeggi sola e pensosa, ed io / non trovo schermo che mi scampi.» Un rovesciamento di piani, uno spiazzante, iper-barocco gioco di specchi fra realtà e finzione letteraria.
Vediamo, tracciate con grazia e ironia, nature morte di sapore Pop: «Amo le scatolette dei pelati / spogliate d’etichette, rese / chiaro argento metallico / e le righe in mezzo a dire / ‘Sono cosa’, pulite, belle / fredde e compagnone, / vuote di sugo piene di matite. »
Leggiamo versi che prendono forma di aforismi intrecciati però a immagini di fresca quotidianità che fanno pensare a Sandro Penna: «Passano i suoni e cantano / l’addio. Esistere non è / essere sempre. Un gatto / miagola e non sai perché. / Chi mi dirà parole che non sono? »
Il movimento che segna tutta la raccolta è però una sorta di progressivo assottigliamento.
L’ultima sezione, "Alito e calce", è una distillazione estrema di quel che precede. Le poesie sono infatti brevissime, quasi degli haiku.
E il libro si chiude a punta di spillo, ma con illuminante allusione al movimento circolare (e dunque infinito) dell’ Ourouboros, simbolo alchemico di mille possibili valenze: «Respiro e graffio, / ourouboros dissolto, / aureo principio.»
1 Francesco Randazzo, Alito e calce (Ensemble, Roma 2017, € 12)
2 Francesco Randazzo, Tu non lo sai da dove vengo (Meridiano Zero, Padova 2015 € 8,50)