AMICIZIA. SGUARDI LIMPIDI, IRRINUNCIABILE CHIAREZZA di Giorgia Cuffaro
Pubblichiamo il breve racconto con il quale Giorgia Cuffaro, alunna della classe I A del Liceo Classico "Empedocle" di Agrigento, ha partecipato al concorso nazionale Uguaglianza nella diversità - Premio Tommaso Viglione città di Venosa, ricevendo la speciale menzione "La forza della parola" per la qualità metaforica della sua scrittura.
Questa è la storia di un incontro singolare, dello scoccare di un legame
ineffabile, che non dalle patologie dei protagonisti ( rispettivamente autismo e
sindrome di Down ), ma da sguardi limpidi e irrinunciabile chiarezza trae
prezioso nutrimento.
«Buongiorno ragazzi. Benvenuti. Sono il professor Abello»
Impegnato com'era a digrignare i denti e dimenarsi, Mattia non si era reso
conto di essere già in classe. Si sentiva come se fosse stato rigurgitato dalle
fauci di un mostro spietato, stanco di tenerlo con sé. Quel mostro era sua
madre; Lucia lo aveva abbandonato, e per di più nel posto peggiore che
avesse mai immaginato.
Sovrastato da un'orrenda falange con a capo un generale in camicia,
punzecchiato da lance marroni mai viste prima, ne riconobbe in lontananza
un paio di meno affilate, più che lance quelle gli sembravano occhi veri,
azzurri come i suoi.
«Vattene via!» Urlò al fante più vicino.
E il nemico, prudente: «Nessuna diplomazia, eh? È il Bello ad avermi messo
qui»
«Devi andartene. Devi stare con quelli come te, quelli che hanno le lance al
posto degli occhi. Vattene subito»
La malcapitata ragazzetta, che poi scoprì chiamarsi Ludovica, cercava
atterrita lo sguardo del professor Abello.
«Mattia, preferisci forse cambiare compagno di banco?»
Tremava, era il Generale Abello a parlargli: «Voglio uno con gli occhi accanto
a me»
L’intero schieramento nemico emise un fragoroso boato simile ad una risata,
del quale Mattia non si curò. A distrarlo dallo scherno era bastata una
risposta semplice, ma sorprendente.
«Io ho gli occhi!»
Lo stupore per una somiglianza tanto eccezionale illuminò tutti e quattro gli
occhi della stanza. Ma quel che ancora nessuno sapeva e neppure
sospettava era che quegli occhi, i più chiari e obliqui che Mattia avesse mai
visto, erano dell’uomo che oggi, dieci anni più tardi, è ancora il suo migliore
amico.
Con evidente sollievo del fante, Andrea, dopo averlo scalzato dal suo posto,
trascorse in religioso silenzio le prime tre ore di lezione accanto a Mattia, che
intanto ingannava il tempo osservando e memorizzando gli strani tratti del
viso vicino: le guaciotte rigonfie e arrossate sembravano cadute per caso su
quel viso tenue e il loro contrasto con gli occhi tanto piccoli da apparire
socchiusi gli ricordava un antico ritratto Gengis Khan. Corpo robusto e
sguardo sottile, modi goffi e temperamento audace: che buffo che era...
Fu la campana dell'intervallo a far precipitare la noia. Per Mattia i movimenti
convulsi degli "altri" erano il segno che la guerra era iniziata, per Andrea il
nulla osta per prendere finalmente la parola.
«Come ti chiami» Nessuna risposta «Mi dici come ti chiami»
«Mattia»
«Te lo chiedo perché non si parla con gli sconosciuti. Io mi chiamo Andrea. Ti
piace il mio nome?»
«È vero, è una regola»
«Cosa?»
«Non parlare con gli sconosciuti»
«Ah già sì. Allora, ti piace il mio nome?»
«No»
«Perché»
«È una regola»
«Una regola contro gli Andrea?»
«No, la regola è che si dice sempre la verità, soprattutto agli amici»
«Siamo amici?»
«Per essere amici si deve essere simili»
«È una regola? Per questo hai mandato via Ludovica?»
«Sì»
«Sai, neanche a me piacciono gli occhi degli altri. Quando guardano
sembrano voler fare male, vero?»
«Come lance»
Ed ecco di nuovo il suono stridente della campana restituire l'ordine che poco
prima aveva rapito. Le successive due ore non furono poi tanto diverse dalle
altre, eccetto che per qualche schiamazzo in più, subito sedato dal professor
Abello.
Mentre Mattia sembrava godere della tregua più dello stesso generale,
Andrea, al quale senz'altro piaceva molto più il disordine, durante la lezione
non osò mai infrangere la regola del silenzio: al parlare con l’amico preferiva
apprezzarne la mitezza, che solo nel silenzio si realizzava. Mattia, dal canto
suo, pur nascondendolo ermeticamente dentro di sé, gioiva sempre più della
simpatia del compagno. A pensarci bene non erano poi così simili quei due:
l’uno, espansivo e vivace, amava chiedere, l’altro, schivo e sibillino, stentava
a rispondere. Tuttavia, tranne che, come spesso accade, gli altri non
avessero formulato una regola ingiusta, doveva esserci un’affinità ad unirli,
come l'unico divisore comune che spiega l’empatia anche fra numeri primi.
Troppo semplice sarebbe ricondurre la decennale intesa di Andrea e Mattia a
due paia d’occhi dello stesso arioso colore. Se qualcosa di intimamente
armonico c’era, e doveva esserci, era piuttosto la loro eccentricità. Non che
fossero più unici degli altri, ma nel mondo in scala che era la classe del prof.
Abello, in cui ognuno dissimulava se stesso, i due erano i soli a
smascherarsi. Nessuna remora, nessuna vergogna, solo la verità. La loro
irrefrenabile franchezza, l’assenza di ogni inibizione erano insieme limite e
virtù, forza e debolezza. È innegabile; ostentare le loro inusuali peculiarità
non li avrebbe avvicinati agli altri, ma garantì loro un amico.
E se provassimo a muoverci nella loro direzione? Forse sarebbe più semplice
distinguere un amico da chi non lo è solo rispolverando la propria autenticità.
Allo scoccare dell'una il trillo della campana aveva annunciato l'epilogo di
quel turbolento primo giorno. Ma prima di correre incontro al padre, Andrea
non resistette alla tentazione di fare un'ultima fondamentale domanda a
Mattia.
«Allora siamo amici?»
«Amici»