RAVANUSA. IL MIO PRIMO VIAGGIO DA BAMBINO, IL MIO 'NOSTOS' DA GRANDE di Giandomenico Vivacqua
Submitted by redazione on Fri, 19/05/2017 - 12:26
La mia prima, fondamentale esperienza di viaggio, mezzo secolo fa, sono state le trasferte da Agrigento a Ravanusa, a bordo di una Lancia Appia, quando venivano le feste comandate e mio padre sentiva il bisogno morale di ricongiungersi con la famiglia d’origine. L’automobile, una berlina affusolata dai malinconici fanali rotondi, mio padre l’aveva acquistata alla fine degli anni ’50, dopo lunghe riflessioni e alcune ruvide ma efficaci lezioni di guida, impartitegli da un cugino acquisito in fama di essere un discreto pilota. L’Appia aveva portiere che si spalancavano al modo delle ante degli armoire, tanto spesse che quando si chiudevano emettevano un tonfo sordo e perentorio, come fossero le aperture di un caveaux della Banca d’Italia. Il sedile anteriore era un voluttuoso divano; la leva del cambio, posta orizzontalmente all’altezza dello sterzo, conferiva alla vettura, uscita di produzione nel 1963, un irresistibile aspetto retrò.
Le operazioni connesse alla spedizione si svolgevano in un’atmosfera esotica ed eccitante. I miei genitori concordavano diversi giorni prima, a bassa voce e con fare cospiratorio, data, orario di partenza e ogni altro dettaglio tecnico, come la natura e la quantità delle provviste da consumare lungo il tragitto, la durata del soggiorno, gli abiti da indossare e quelli da portare come ricambio. Sempre con largo anticipo, mio padre investiva un suo uomo di fiducia, il leggendario Pepè, del compito di verificare le condizioni del mezzo e di curare la sua messa a punto. Più si avvicinava il giorno designato, più le attività preparatorie si facevano febbrili, e quando finalmente arrivava il momento di partire, pressoché all’alba, mia madre ci spingeva giù per le scale, mentre mio padre, prima di chiudere la porta di casa a doppia mandata e di consegnare le chiavi, per ogni evenienza, ad una buona vicina, con una laconica chiamata avvisava il comitato di accoglienza. Potevamo immaginare il nero telefono a parete allarmare la casa di via Rudinì, quartiere di san Michele, Ravanusa, dove mia nonna e le mie zie erano intente alla preparazione del pranzo d’ingresso, una sorta di rassegna enciclopedica delle pietanze apprezzate dal professore, mio padre, cibi antichi e di solida reputazione, resuscitati in quel laboratorio alchemico che era la cucina di mia nonna, dove il ligio e costante fuoco del gas non aveva ancora esautorato la riottosa e incalcolabile fiamma lignea.
Lasciavamo Agrigento muta e immobile nel torpore impiegatizio della prima mattina, ma già al quadrivio Spina Santa potevamo cogliere un certo fervore agricolo, i magazzini spalancati, i massari all’opera, un modesto anticipo di quello che avremmo trovato nel mondo in cui eravamo diretti, la Sicilia interna.
Per arrivare a destinazione, allora, bisognava attraversare alcuni paesi intermedi, una scomodità che aumentava il fascino del viaggio. Non si trattava di coprire, nel modo più rapido reso possibile dal mezzo meccanico, una mera distanza fisica, ma di scivolare progressivamente dentro altre dimensioni del tempo. Per me e i miei fratelli significava percorre a ritroso il viaggio paterno, dalla maturità postbellica, i cui esiti erano stati la cattedra, la presidenza e noi, all’infanzia sulle rive del Salso, presso quella utopica Isola di Cuti dove mio nonno produceva il vino aspro e tenebroso con cui pagò l’istruzione dei figli. Con l’odore di stallatico e di cibi cotti nel focolare, la giovinezza di mio padre ci veniva incontro già alle prime case del paese. Un mondo omerico, destinato a scomparire nel volgere di pochissimi anni, ci invulvava nella sua densità millenaria, ripristinando fondamentali verità umane, sgravandoci dalle finzioni cittadine, dai posticci decori condominiali, dal grottesco modernismo del capoluogo. Nella casa avita, le parole di una lingua aspirata e vetrosa componevano formule incantatrici e vedevamo serpeggiare da sotto la sedia in prossimità del braciere, su cui mio nonno perennemente avvolto in uno scialle nero veniva a posarsi, nodose radici viola, resinose e tenaci. A sera, una tradizione orale ancora viva ritardava il riposo, mentre i tangini riscaldavano i letti.
A cavallo di una giumenta fuligginosa, recluso nella corteccia del tabarro, attraversava il piano di san Michele, lentissimo, dissolvendosi nell’ultima luce del giorno, mio nonno Giovanni.
Nei serali andirivieni tra la Croce e il Convento, mio padre ritrovava le ore bustrofediche degli anni giovanili, alcuni compagni, un sottile rimpianto. Di un ammirato cugino maggiore io diventavo l’ombra e affinavo l’orgoglio dell’appartenenza consumando raviole fritte e pezzi duri al caffè Diliberto.
Nel cortile ombreggiato, facce totemiche di parenti innominati liberavano sorrisi di creta, comprensivi della nostra incolpevole foresteria.
Morto mio padre, avrei voluto riportarlo indietro, affinché il suo viaggio si concludesse lì, dov’è il principio di ogni sua e nostra cosa. Che riposasse accanto al padre, alla madre, al più giovane fratello, sorpreso da una folgore sotto un carrubo a soli vent’anni, nel 1945, ad una sorella. Ho soprasseduto ma non ho rinunciato. Del resto, nei momenti di più esacerbato rifiuto del secolo, vagheggio una personale catabasi, di tornare, per sparirvi, in quel luogo. Immagino di ritrovare, come un tempo, una sedia fuori dall’uscio, le prime letture di mio padre, pazienti in attesa nella libreria della casa di via Rudinì, e mio cugino, di cui ancora mi farò ombra, a patto che mi racconti, come una volta, le storie di ieri.
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