PERCHE' NON POSSIAMO NON ESSERE ATTUALI, NEANCHE SCRIVENDO MEMORIE di Gaetano Savatteri
Insomma, dice Giandomenico Vivacqua, “la nostra battaglia è la memoria. Lasciamo ai trentenni, tanto spesso invocati nelle nostre riunioni, la libertà di fare e di non fare, di avere successo e di fallire. Tutto quello che possiamo per loro sono i nostri ricordi e la serietà, non disgiunta dalla pietà, con cui dobbiamo raccontare le nostre storie”.
La memoria e la resa, dunque. Feci quod potui, faciant meliora potentes. E, secondo Vivacqua, i “potentes” non devono avere più di trent’anni. Tutto il resto è noia, amarcord, nostalgia, rimpianto o rimorso. Fallimento o successo. Storie da consegnare alle generazioni future. E quindi basta farsi cavie dei propri figli per assolvere il compito a noi affidato dalla Storia o dal Caos.
Qualcosa non mi torna. Anzi, molte cose non tornano. Il discorso di Vivacqua prende mossa dall’ispirazione – immedesimazione? – tra Giandomenico e Frédéric Moreau, il protagonista dell’Educazione sentimentale di Flaubert. Dopo aver cercato successo e fortuna a Parigi, Moreau ritorna nella sua sonnacchiosa provincia dove ritrova la donna che ventisette anni prima aveva vagheggiato, ma l’occasione mancata ormai è mancata per sempre. In pratica: la donna è vecchia, Frédéric è vecchio, le illusioni perdute per sempre.
Continuo a dire che c’è molto che non mi torna, soprattutto se confronto la mia età e quella di Giandomenico che, anno più anno meno, dovrebbero essere uguali, visto che frequentavamo le medesime aule scolastiche negli stessi anni. Ma non mi torna soprattutto se confronto l’età mia e di Giandomenico a quella di Frédéric Moreau. Nel 1867, quando avviene l’ultimo incontro tra Moreau e la signora Arnoux, il protagonista di Flaubert ha 45 anni (quarantacinque, proprio così). Infatti è vecchio.
A metà dell’Ottocento, l’aspettativa di vita di un francese, al momento della nascita, era di 41 anni (in Italia era ancora più bassa). Chi aveva superato quella soglia, non poteva non sentirsi un sopravvissuto. Peraltro, il percorso formativo di Moreau comincia quando di anni ne ha diciotto (non ventotto o trentacinque), età oggi considerata maggiore per la legge, ma sicuramente ancora post-puberale nel giudizio di insegnanti, genitori e dell’intera società europea.
Temo che Vivacqua abbia trascurato alcune novità intercorse tra il 1867 e il 2017: la penicillina, gli antibiotici, la sanità pubblica, la cardiochirurgia, l’igiene individuale e collettiva, internet, le diete macrobiotiche, la previdenza sociale, i voli low cost e il viagra.
Molti di questi elementi, assieme a tantissimi altri, costringerebbero oggi Frédéric Moreau a interpellare l’Inps per scoprire che a 45 anni (quando già pensava di aver tirato i remi in barca) ha davanti a sé almeno altri ventidue anni di lavoro prima di poter presentare domanda di pensione, secondo le regole scritte dall’ex ministra Elsa Fornero. Moreau, secondo le convenzioni economiche attuali, farebbe parte a pieno titolo della popolazione attiva, considerato quindi dalla pubblicità, dal commercio e perfino dall’auditel come soggetto capace di dinamismo e spesa. Un acquirente, un consumatore e pertanto, secondo il neocapitalismo, un cittadino.
Se Frédéric fosse nato in Italia a metà degli anni Sessanta dello scorso secolo – come me e Giandomenico Vivacqua - sarebbe un figlio del boom, andando a comporre la parte più consistente della popolazione italiana, quegli adulti fra 45 e 55 anni che determinano, checché se ne pensi, la politica, l’economia, le abitudini e i comportamenti dell’Italia intera: non perché siano migliori o peggiori del loro tempo o nel loro tempo, ma solo perché sono moltissimi. Come si vede, spesso la scelta tra impegno o disimpegno, in ogni possibile forma, si riduce a una questione di salute e di demografia.
Mi dispiace per Giandomenico, ma anche se decidesse di essere passatista, anche se decidesse di farsi eremita o di affidare nuove e maggiori responsabilità alle generazioni future, non gli sarà possibile. E se lo facesse sarebbe solo un atteggiamento vezzoso per vivere a proprio modo il presente, senza l’alibi dell’età: è caduto nel secolo e nel millennio sbagliato. Capisco che sarebbe più semplice chiudere presto, anzi hic et nunc, il cerchio tra speranze e ricordi, affidando ai posteri l’interpretazione di noi stessi (“Forse si chiederanno anche chi io sono stato”, conclude Vivacqua). Ma non è possibile, caro Giandomenico, perché sei (siamo) nell’età infame: né giovani né vecchi. Ci tocca e ci toccherà ancora dire e fare la nostra parte in copione. E potremo farlo solo nel presente e sul presente, perché non si riesce ad essere inattuali nemmeno scrivendo le proprie memorie.
Gaetano Savatteri