I TALENTI VANNO MESSI A FRUTTO, SEMPRE di Venerando Bellomo
Caro Giandomenico, in merito al tuo scritto Che fare? Migliori del proprio tempo o del proprio tempo i migliori?, che ho molto apprezzato, mi chiedo: ma cos’è e quale effettivamente è la nostra generazione. Ho, da sempre, avuto l’impressione, proprio per essere nato nei primi anni sessanta, di appartenere non ad una, la nostra, ma a più generazioni. Ritrovandoci testimoni di un’epoca volgente, che proveniva dal dopoguerra, ma che si portava appresso i caratteri sociali e psicologici di un mondo che deponeva le armi, per traghettare in quello spumeggiante “da bere”, precipitando in un contemporaneo così fluido da non avere il tempo di assumere alcuna forma. E la differenza, per ciò che riguarda la prima fase, tra me che provenivo dalla provincia e la città, che destava perplessità ed angoscia, per intenderci quel sentimento che descrive Paolo Conte con “Genova”, era allora di tutta evidenza, in particolare, nella formazione scolastica, quasi asburgica. Tanto d’essermi convinto di aver fatto un servizio militare anticipato. E poi, poco alla volta, anche nei paesi, per induzione, ci si cominciò ad uniformare verso il paradigma cittadino, fino a raggiungerlo. Essendo ormai difficile distinguere, forse nemmeno nella cadenza linguistica, la provenienza dei ragazzi. Ma i paesi sono, almeno nella memoria, un luogo tutto da scoprire, dove vissero dei personaggi come Don Ferrante, che ad un giro ristrettissimo di giovani fecero conoscere un sapere che, altrimenti, difficilmente avrebbero avuto. L’opera lirica, la letteratura, il teatro erano oggetto di narrazioni e di fantasie galoppanti, magari a volte estrose ed eccentriche, che però spinsero quei giovani a recuperare libri, dischi, copioni, partiture, che diventarono prolegomeni della loro formazione. E ora che il mio paese è lambito dalla “Strada degli scrittori” mi rendo conto che quel nostro modo di ragionare o di affrontare una questione, non era, come credevamo, originale, nostro, ma effetto di quello che le leggi fisiche descrivono come simpatia. E questa nostra generazione ha avuto la fortuna anagrafica di essere contemporanea di quelli che oggi definiamo “grandi”. Ma oggi, nella fase fluida, in questo continuo divenire informe, la domanda rimane identica a quella posta dagli scolastici: Ubi sunt? Che ne rimane di tutto ciò se non la memoria. Quest’epoca, dove siamo, ancor giovani, presenti, ma vecchi di millenni, per le conoscenze anagrafiche trasfuse, dovrebbe avere dei riferimenti precisi, non di scollamento o peggio di dimenticanza del passato, ma di una sua rilettura disincantata: un postmodernismo intellettuale. Ed allora, su chi puntare? Penso che non risponda a canoni etici e di giustizia affidare agli altri questo compito, standosene comodamente al balcone, se non nella noia dell’attesa. Ma come nella parabola dei talenti, di dar conto, ognuno di noi, del proprio passaggio terreno.