NEL 'SEGNO' DELLA RICONCILIAZIONE? di Giandomenico Vivacqua

E' stato presentato ad Agrigento nella sala chiaramontana del seminario l'ultimo numero della rivista 'Segno'. Sono intervenuti Giandomenico Vivacqua, Beniamino Biondi, Fausto D'Alessandro, Gaetano Gucciardo, Tano Siracusa, don Baldo Reina, il procuratore della repubblica di Agrigento Luigi Patronaggio e il direttore della rivista Nino Fasullo. Pubblichiamo il testo dell'intervento introduttivo di Giandomenico Vivacqua

 

Presentiamo questa sera l'ultimo numero di Segno, storica rivista palermitana di critica sociale e politica. Storica non perché vecchia di quarant’anni, ma perché durante questi quarant’anni ha saputo essere presente, malgrado le difficoltà tipiche dell’editoria indipendente, nel discorso pubblico della città di Palermo, intorno ad alcuni temi capitali della convivenza civile: la mafia, la povertà, il disagio sociale.

Durante tutto questo tempo, il mensile ha rappresentato un preciso riferimento culturale per quell’opinione pubblica riflessiva, generalmente di sinistra, portatrice di istanze di giustizia sociale e di riscatto morale. Col suo capitano, don Nino Fasullo, e con un gran numero di collaboratori – voci autorevoli provenienti dall’università, dalla chiesa, dall’intellettualità organica e disorganica, dagli ambienti artistici e teatrali – Segno ha orientato i suoi lettori ed ha contribuito alla maturazione di una più avanzata sensibilità civile verso le ragioni e le prospettive dello stato di diritto, proprio negli anni in cui queste ragioni e queste prospettive venivano messe a repentaglio dal piombo e dal tritolo stragistico dei corleonesi.

Ma delle ispirazioni originarie di Segno ci dirà don Nino, e ci dirà anche se e come tali ragioni siano declinate o mutate col tempo. Il suo editoriale, parla di questo.

Io vorrei solo tematizzare due aspetti, di cui abbiamo parlato in questi mesi con Nino Fasullo e con altri amici, alcuni dei quali qui presenti.

Il primo, è la possibilità che Segno trascenda la sua dimensione prevalentemente palermitana, il suo tendenziale panormocentrismo, aprendosi non soltanto a collaborazioni periferiche, come è in realtà sempre avvenuto, ma ad un programmatico tentativo di intelligenza della provincia siciliana, a partire da Agrigento (ovviamente). In questo senso, abbiamo discusso della possibilità di aggregare un gruppo di collaboratori, una sorta di redazione locale, agrigentina, che possa elaborare dei contributi microcosmici, ma di valenza universale, per la rivista: penso ad una sorta di antologia di Spoon River in prosa. Ed in questo, lo avrete capito, c'è uno scoperto tentativo, da parte mia, di strumentalizzare Segno e il suo sapiente direttore, per resuscitare, almeno in parte, lo spirito di un’altra esperienza, quella di Fuorivista.

Il secondo aspetto, a mio giudizio strettamente collegato al primo, è la possibilità di accreditare altri strumenti di intelligenza, rispetto a quelli dell’analisi sociologica o politica: penso all’approccio narrativo, letterario, convinto come sono che una ricognizione espressionistica della realtà possa contribuire ad una migliore comprensione della realtà.

L’articolo che ho pubblicato su questo numero, su una vicenda agrigentina del secolo scorso, in fondo tenta di muoversi su entrambi i piani citati: si tratta, ovviamente, di un tentativo, di un esperimento, non so quanto riuscito, ma ringrazio moltissimo don Nino per avermi consentito di farlo.

Su tutto questo, però, incombe una domanda ontologica: può una rivista come Segno continuare ad aggregare, a orientare e conferire identità a chi la scrive e a chi la legge al tempo dei social media? Io credo di sì: ma su questo vorrei che si aprisse una discussione e sentiremo il parere dei nostri relatori.

Per concludere, dalla lettura dell’editoriale di don Nino ricavo elementi di speranza e di stimolo etico. Se non ho inteso male, don Nino, tu ci dici che sarebbe sterile e persino ingiusto, oggi, rimanere legati ad una morale binaria, riassumendo tutto il male che ci abita, tutto il disagio della nostra condizione di siciliani, la difficoltà di essere siciliani, in alcune figure del mostruoso, in alcune icone del male assoluto, quali sono stati certamente i mafiosi negli anni passati e quali forse oggi, nell'età del rancore, sono i politici giudicati corrotti o incapaci e gli appartenenti alla cosiddetta casta. L’uomo può fare anche cose bestiali, ma non è definitivamente una bestia, scrive don Nino. Continuare a credere il contrario vorrebbe dire rimanere al palo di una concezione sacrificale, girardiana: tutti contro uno, o contro pochi, per sentirci dalla parte giusta ed assolverci da ogni senso di colpa e sgravarci da ogni responsabilità. Ma il cristianesimo ha sconvolto questo arcaico paradigma, rivelandoci che quell’uno che viene additato, escluso o recluso, non sempre è colpevole, quasi mai è peggiore degli altri e almeno in un caso, lo sappiamo, era il Re dei Re.

Siamo dunque pronti, don Nino, non già a sostituire la principale tra le parole d’ordine della sinistra degli ultimi decenni, legalità, ma ad aggiungerne

altre, come ad esempio riconciliazione? Siamo pronti a trarre qualche conseguenza dal passo giovanneo dell’adultera, che è stato oggetto di un recente approfondimento monografico della nostra rivista?