IL CORPO SACRO DELL'EROE di Vito Bianco
Trent’anni dopo la conquista dello scudetto, Diego Armando Maradona, soprannominato “el Pibe de oro”, è tornato a Napoli per festeggiare il fausto anniversario. Non che da allora non ci fosse più tornato, ma il ritorno di cui stiamo parlando è un ritorno speciale, direi unico e irripetibile, circonfuso dall’aura della trasfigurazione semidivina.
A rimettere piede a Napoli, infatti, non è un uomo, un ex calciatore di straordinario talento, ma una reliquia vivente che dal balcone del suo lussuoso hotel impartisce una sorridente benedizione al popolo adorante che in questi giorni ha di nuovo scandito che “Maradona è meglio e’ Pelè”.
Non so dire se abbiano ragione gli adoratori, di sicuro Pelè è stato ed è diverso, come calciatore e come uomo: intemperante e guascone l’argentino (in campo e fuori), felpato e silenzioso il brasiliano (in campo e fuori).
Due modi di stare nel rettangolo di gioco e al mondo diametralmente opposti; due caratteri così lontani da prefigurare due destini postatletici altrettanto distanti (“il carattere è il destino” diceva un antico filosofo): per Pelè una vita normale, con la quale chiunque si può identificare; per Maradona l’eccesso, la turbolenza,e infine la trasfigurazione partenopea, il diventare l’unica icona in grado di mettere seriamente a repentaglio la primazia soprannaturale di san Gennaro.
Diego, come lo chiamano a Napoli, è stato accolto con gli onori che un tempo si tributavano agli eroi di guerra. Per lui, eroe di una trascorsa guerra pedatoria e santo laico di un paradiso terrestre virtuale e illusorio, si sono aperte le porte del San Carlo: un luogo sacro del rito operistico felice di accogliere il corpo sacro dell’eroe, forse un po’ imbolsito e provato dagli stravizi ma ancora miracoloso.
Tutti i napoletani (andiamo a spanne, naturalmente) gli hanno reso l’omaggio che meritava, a cominciare dal sindaco de Magistris, abile maestro di populismi, che lo nominerà cittadino onorario della città più complicata e disgraziata d’Italia, per finire con il circolo di intellettuali (apprendiamo da una cronaca del Giorno di Nino Femiano) che ogni anno officiano – se non ho capito male – il “Te Diegum”: una cerimonia del tutto priva di ironia sul confine ormai invisibile che in passato separava il ridicolo da tutto il resto.
Che si può dire, dopo aver letto una simile notizia, che più di cento colte riflessioni rivela lo spirito dei tempi? Forse solo questo: non ci sono più gli intellettuali di una volta. Quelli seriosi con la barba e gli occhiali che giuravano di non guardare mai la televisione. Scomparsi e da nessuno rimpianti. Come le mezze stagioni e le cabine telefoniche.