UNA LETTERA DA MILANO di Vito Bianco
Dopo un lungo inverno e un’altra estate sul litorale della città greca, alla fine dello scorso mese di ottobre sono tornato a Milano.
Mi sono imbarcato sulla Poderosa, o Formidabile, non sono più sicuro del nome, alle undici di sera, e l’indomani alle sette siamo arrivati a Genova. Mentre sui ponti aspettavamo l’attracco, ho chiesto a un signore piccolo sui sessanta con l’aria da folletto se era di Genova e se sapeva come fare per arrivare nella via dell’albergo dove avevo prenotato una stanza. Il signore mi ha detto di essere genovese ma di padre siciliano e che mi ci poteva accompagnare lui in macchina se avessi avuto la pazienza di aspettare il turno di uscita dei passeggeri automuniti. Ho risposto sorridendo che avrei aspettato volentieri, che mi reputavo fortunato ad averlo incontrato, e che era molto gentile a darsi tanto disturbo. Nessun disturbo, ha detto, sono di strada.
Quando siamo scesi nella pancia della nave con dentro le auto ho visto che la sua era imbottita di valigie e pacchi e altra roba che non ho avuto il tempo di identificare ho pensato che non ce l’avrei mai fatta a trovare posto in quell’abitacolo riempito fino al tetto di mercanzia varia, dolci, frutta, vestiti e altro ancora. Il signore gentile e timido mi ha detto che ogni anno torna in un paese della provincia di Caltanissetta da dove sessant’anni fa è partito suo padre per far rifornimento di derrate alimentari e vestiti e sbrigare non so più quali affari stagionali.
Mentre aspettavamo il turno degli automobilisti mi ha domandato cosa studiassi, ha creduto che fossi uno studente. Ho risposto che non studiavo, che ero troppo vecchio per essere uno studente. Quando gli ho detto quanti anni avevo si è stupito, e mi ha guardato un po’ come se sospettasse uno scherzo.
Mi ha fatto scendere cinquanta metri dopo l’albergo, prima di una svolta a sinistra che doveva imboccare per raggiungere casa sua. Ci siamo salutati e presentati, sulla nave e durante i cinque minuti del percorso in macchina nessuno dei due aveva pensato di dire all’altro il proprio nome. Ignazio, prima di rimettersi al volante ha detto che forse ci saremmo rivisti il prossimo anno: vado giù una volta all’anno in ottobre, mi ha ripetuto. Ho detto che tutto era possibile senza aggiungere che per me ottobre è il mese delle decisioni a lungo rimuginate e delle partenze improvvise e segrete per mare.
Ho lasciato il trolley e lo zaino in camera e sono uscito. Prima però ho aperto la finestra e guardato per qualche minuto, da quell’altezza, la Stazione Principe illuminata e le case sulla collina intanate nel buio e ascoltato i rumori delle macchine che scendevano e salivano superando la curva e le porta d’ingresso del Bellevue, dove avrei passato la notte.
Fuori c’era vento e il piumino blu sulla sola camicia non era sufficiente a ripararmi dal freddo. Col cappuccio sulla testa, curvo, con le mani sotto le ascelle camminavo per la bella e poco larga via Balbi che comincia a piazza Principe a finisce in una piazza circolare con tre strade a raggiera che non so dove portano. Nessuno in giro, solo ogni tanto qualche passante che andava “a passo di corsa” e un paio di giapponesi sperduti che a un angolo consultavano una cartina. Quando, alzando gli occhi dalla cartina, mi hanno visto, si sono avvicinati facendo un gesto con la mano per chiedermi se sapevo dove si trovasse hotel Astoria, aggiungendo il nome della via. Ho allargato le braccia e con sorriso desolato ho risposto che non lo sapevo. La donna, forse la moglie, ha detto grazie, in italiano e tutte e due sono rimasti per due o tre secondi immobili, come se cercassero di ricordare dove fossero e dove volevano andare. Poi se ne sono andati, incerti, smarriti, guardando a destra e a sinistra, quando li ho persi di vista mi sono mosso anch’io.
Tornando indietro avevo il vento contro. Camminavo sul marciapiede, sfiorando l’imbocco dei vicoli che finivano con delle scalinate ripide che si arrampicano ostinate verso le cime impervie di una città antica, fatta per cervi di montagna o per alpinisti provetti, per un’umanità scontrosa e diffidente che aveva voluto allontanarsi il più possibile dall’acqua. Salendo qualche gradino, piano, timoroso, pensavo: ma Genova non è stata una della gloriose e ricche repubbliche marinare? E allora perché questo insensato bisogno di abbarbicarsi, di intanarsi sollevandosi sempre più sul livello del mare?
Il giorno dopo di buonora ho dato inizio alla mia maniacale perlustrazione della città tra ripe e sottoripe, lasciandomi alle spalle la collina grande che domina la stazione e la città vecchia, stravolta dalle costruzioni, ville, condomini di varie quadrature e altezze, speculazione che punta all’altezza, che scuote e scava la roccia millenaria impunemente e non lesina il cemento e il bitume. Andavo tenendo in mente dei punti di riferimento, seguendo l’estro, fermandomi, ripartendo, deviando e ritornando sui mie passi, scendendo verso il porto e salendo in direzione di palazzo Ducale, e poi di nuovo in marcia per vedere un altro lungo vicolo pieno di botteghe e caffè e odore di verdure e pesce e budelli scuri, ombrosi con panni stesi ad asciugare. La stanchezza l’ho sentita dopo, quando mi sono fermato per mangiare una porzione di polpettone alla genovese (uovo fagiolini patate) e un piatto di trenette al pesto, guadando dal tavolo vicino alla porta il via vai della gente e ripassando nella mente le cose viste e le voci ascoltate.
In treno, l’indomani, era bello e curioso osservare come la Liguria diventa Lombardia, come la variegata vegetazione intorno a Genova e poi oltre diventa gradatamente piatta e uniforme pianura, pianura tanto larga che l’occhio davvero si perde, lo sguardo può essere colto dalle vertigini per mancanza di punti fermi, di pause, di intervalli entro cui riposare e riaversi e tirare un fiato e tornare a una misura domestica, a un paesaggio che non intimorisca con la sua ostentata indifferenza.
Ma superata Voghera, credo, i faggi e le querce e il ridondante sottobosco sono ormai solo un ricordo così come il sentore di mare, anche se da tempo il mare, come a Palermo, sembra messo lì e dimenticato, tenuto sullo sfondo a rammentare un passato che si può soltanto provare a immaginare o inventare.
Sul sedile di fronte una ragazza si è addormentata col cappotto verde sulle gambe, la testa girata a sinistra, la gamba destra sull’altra, quasi subito la fine di una conversazione telefonica che sembrava interminabile. Ho cercato di farglielo capire, sì, te l’ho detto, ho cercato ma non c’è stato niente da fare, diceva; e poi: no no, guarda che ti sbagli. D’accordo, ci vediamo domani.
In treno tutto fila liscio, scegli dove guardare e se guardare e per un momento puoi sentire, puoi credere che niente è perduto, che quel che ti resta da fare o da subire non è puoi così difficile o duro. Ma quando arrivi a destinazione è subito diverso, senti la terra, senti la corrente contraria di quelli che avanzano ansiosi per prendere il posto tuo e della ragazza e allora capisci l’inganno, l’illusione alla quale però non sai rinunciare.
Se Genova si arrampica, sale scavando fondamenta nella roccia – un gesto contronatura (almeno nel passato l’ha fatto e ora si aspetta ad ogni temporale il disastro), Milano si allarga per tutto il raggio della pianura e si alza restando sul piano e tenendosi a debita distanza dalle montagne, che sono roba da piemontesi occitani o da svizzeri: e quindi avanti con i nuove altissime costruzioni a vela di vetro e le piazze “liquide” con i zampilli danzanti delle fontane e i grattacieli ecologici, verdi disegnati da Boeri in un quartiere parzialmente rifatto per un futuro immateriale quasi presente.
Milano è la solita o è cambiata?, mi domando già appena fuori dalla Stazione centrale, la grande stazione novecentesca e monumentale dove continuo a perdermi, a sbagliare le uscite, a confondere le biglietterie, a spaventarmi. Non so rispondere perché bisognerebbe prima mettersi d’accordo su un punto decisivo: di quale Milano vogliamo parlare? Perché se c’è una cosa di cui sono sicuro è che sono molte le città che portano questo nome, tutte però unite a formare un’unica grande città degli opposti: cosmopolita e provinciale, silenziosa e frastornante, teatrale e finanziaria, lenta e veloce, gentile ma anche imperturbabile.
Ma voglio subito dire la verità, per evitare di confondere le acque e fare di questa umorale testimonianza un documento totalmente fallace: io non vivo a Milano, ma in una propaggine monotona e trafficata formata da un triangolo di comuni che crebbero col crescere dell’aerea industriale di Sesto San Giovanni (uno degli angoli) e che ora si tengono in vita grazie a quel che resta di quell’area e di sicuro di qualcos’altro che al momento mi sfugge.
Così stanno le cose; è meglio metterlo subito in chiaro. Vivo alla fine di viale Fulvio Testi (poeta) che diventando via Gorky immette in una via Libertà che rinominandosi via Frova ti lascia davanti a una delle più belle biblioteche d’Italia. Sul piazzale di fronte alla fermata del tram un bronzo di Cordelia van den Stein intitolato Il grande salto: una giovane sospesa tra due parallelepipedi di cemento con una valigia nella destra e un mantello tanto massiccio e “gravoso” che si stenta a credere sia riuscita a sollevarsi di quei pochi centimetri.
Ma mi chiedo se poi è davvero possibile vivere a Milano. Comincio a pensare che in questa città di grattacieli e vecchie case, di chiese gemelle e di canali un tempo navigabili (fino al Trecento Milano era una “città d’acqua”), di vie della moda e Bovisa e Baggio e Quarto Oggiaro ovunque ti trovi ad abitare sei sempre in un altro posto, in un’altra città, e stai in quel perimetro segnato da una stazione ferroviaria e da una fermata d’autobus o di metropolitana continuando a dire che vivi a Milano ma senza crederci fino in fondo. Saresti onesto se alla domanda rispondessi abito “quasi” a Milano, perché, per un imprevedibile scherzo della divinità che sovrintende al destino delle città, Milano non somiglia mai interamente a se stessa, a una possibile immagine ideale e riassuntiva. In nessuno luogo, in nessun quartiere: né a Porta Ticinese, né a Brera; né a Isola e neppure in via Spiga o in Galleria. Forse solo alla Stazione centrale, arrivando o partendo puoi dire di essere a Milano; solo lì.
Una città così, senza un’identità descrivibile, un carattere afferrabile è un posto ideale per uno come me che ha passato il mezzo secolo e ancora non riesce a star fermo nonostante provi una sorta di paura infantile anche solo sentendo pronunciare la parola “partenza”.
Una terra straniera dove si parla la mia lingua: questo è per me Milano-Sesto-Bresso-Parco nord-Cinisello Balsamo, con annessi i due grandi centri commerciali e le loro venti sale cinematografiche. Una terra straniera abitata da stranieri con un non so che di familiare dove mi muovo come un esploratore e dove ogni cosa mi stupisce. L’unico sforzo che devo fare è far durare lo stupore. Nient’altro.
Non so per quanto tempo ancora potrò farlo durare. Cerco, per quanto posso, di consumare il meno possibile le strade, le piazze, i parchi, i palazzi settecenteschi e quelli meno noti del Liberty, come la bizzarra Casa Berri-Menegalli, con le maschere di ottone e le citazione gotiche (1920) o gli omenoni corrucciati ai lati del portone di un palazzo del Seicento a pochi metri dalla Scala o ancora quello che chiamano “il quadrilatero del silenzio”.
Mi concentro sulle cose minime, quelle che di solito ci sfuggono: un albero, un tappeto di foglie sul marciapiede, un campo di calcio vuoto con le linee di gesso sbiadite, il disegno a bulino sullo specchio ghiacciato di una pozzanghera.
Poi per distrarmi mi metto a sognare di andare a vivere a Milano. Una qualsiasi.