PATERSON, POESIA TROVATA IN UNA SCATOLA DI FIAMMIFERI di Vito Bianco

Jim Jarmusch (Daumbailò, Strangers than paradise) appartiene alla  non folta compagine di “autori totali” (come Malick e  Dolan e da noi Garrone e Sorrentino) che sin dall’esordio lavorano con rigore e coerenza all’approfondimento di una personale idea di cinema, sideralmente lontana da quella (ammesso che sia un’idea) adrenalinica o effettistica dei prodotti, talvolta persino inappuntabili nella “confezione”, che vanno per la maggiore e godono di una imbattibile preponderanza distributiva. L’idea di Jarmusch è insieme semplice e affascinante: se una faccia o un oggetto o una luce sono importanti, fermati a guardarli, dai tempo alla tua visione di diventare la visione dello spettatore.
  A questa regola non fa eccezione Paterson, diretto e sceneggiato dallo stesso Jarmusch, opera di trama esile e quasi inesistente che racconta una settimana nella vita ordinaria di una coppia di giovani molto innamorati e molto comuni. Lui si chiama come la città in cui vivono, Paterson (Adam Driver, già visto nell’ottimo Hungry hearts di Saverio Costanzo), e per campare fa l’autista d’autobus; la moglie Laura (Goldshifteh Farahani) è invece una allegra e creativa casalinga che fa dolci squisiti e sogna di diventare una cantante. 
  Niente sembra turbare o anche soltanto increspare la routine risveglio colazione lavoro ritorno (un guasto all’impianto elettrico del vecchio mezzo è il massimo dell’imprevisto); nessun particolare avvenimento attende dietro l’angolo il giovane Paterson, che ogni giorno guida il suo autobus  numero 23 e ogni sera porta a spasso il cane e si ferma per una birra e due chiacchiere al bar del vecchio collezionista di fotografie di glorie locali.
  Con queste premesse ci si aspetterebbe l’ennesimo film sulla ripetizione quotidiana di cui ognuno di noi fa esperienza, se non fosse che Jarmusch cala questa sperimentata intuizione del racconto (scritto e filmato) di situazione nel più interessante contenitore della meditazione sul rapporto che lega vita e poesia,  creazione verbale per eccellenza e i vari casi dell’esistenza, il tempo vissuto e il tempo ricreato dalla scrittura.
  Come si può subito intuire sin dal titolo, Paterson fa trasparire, sotto il leggero travestimento da opera sull’amorosa convivenza di due simpatici rappresentanti dell’ordinary people, un arguto e ironico trattato di ars poetica e un prezioso invito alla lettura dei libri di poesia, a cominciare da quelli di William Carlos Williams, nato e vissuto nella vicina Rutheford, New Jersey, che di Paterson, nel lungo poema omonimo, fece l’emblema dell’autentico spirito americano. Perciò il gioco circolare di microspostamenti del cuore dell’occhio e della parola va dal nome della città al nome del grande a quello del protagonista, che scrive, a casa o sull’autobus prima di partire, brevi  poesie che conserva nel suo “taccuino segreto”, destinato a una fine inaspettata. 
  La più bella è una poesia d’amore, che però comincia parlando di due marche di fiammiferi e finisce con i baci che si “stemperano nel cielo”.  Come a dire che la poesia è nascosta nelle cose più comuni, quelle che non vediamo più proprio perché le guardiamo continuamente; per stanarla, per metterla sulla pagina e dargli “respiro”, occorre, per cominciare, tornare a osservarle per - finalmente - vederle.
  In un testo famoso Williams, rispondendo a chi si chiedeva dov’è la poesia, diceva che è lì, a portata di mano; aspetta che qualcuno (un poeta) si accorga di lei e la trasporti sulla pagina. Jarmusch, nel suo omaggio al grande medico-scrittore si rammenta di questa risposta e nell’autista di Paterson incarna e fa rivivere la lezione dei due sensi poetici - l’occhio e l’orecchio -  e riflette su un arte essenziale ma trascurata, così vicina e così lontana. D’ora in poi, alla domanda “dove si trova la poesia” potremo rispondere: “In una scatola di fiammiferi”.

categorie: