CHIARORE O OMBRE. DIALETTICA TRA OCCIDENTE E ORIENTE di Pepi Burgio
Scritto nel 1935, Libro d’ombra di Jun’ichirō Tanizaki, è un libro assai particolare. La forma è del saggio, ma contiene anche alcune gemme espressive, nonché spunti che invitano alla riflessione filosofica; ed una grazia tutta particolare che fa da lievito al fervore civile dell’autore. Il quale propone un’interessante ipotesi di carattere, diciamo così, antropologico: i Giapponesi in genere rifuggono da ciò che è luccicante in eccesso, preferendogli il soffuso, l’opaco, l’ombroso. Ed anche quanto è esperito, vissuto: La casa antica che ci trasmette un senso di pace profonda, e inesplicabilmente ci calma.
La gastronomia, l’arredamento, la scenografia teatrale e la ricerca della bellezza, rintracciabile anche negli aspetti minimali della vita ordinaria, tutte hanno a che fare con il chiaroscuro, con i sortilegi che traggono il loro potere solo dai giochi d’ombra.
Ma è nel dodicesimo capitolo che l’autore, per così dire, decolla; e approfondisce il suo punto di vista proponendosi attraverso una narrazione elevata, a tratti lirica. Il ricordo della bassa statura della madre, e di gran parte delle donne giapponesi di quel tempo, la loro minuta consistenza corporea, quasi le collocava in una dimensione d’apparenza, d’ombra; di cui molto difficilmente i contemporanei, dice Jun’ichirō Tanizaki, avrebbero saputo cogliere la malìa che si sprigionava dalle fantomatiche donne recluse del vecchio Giappone. E aggiunge: la donna era per i nostri avi un ornamento dell’oscurità.
Queste affermazioni, che a molti faranno storcere la bocca, oltre che apparire come inaccettabili nostalgie regressive dettate al più da istanze misticheggianti, in realtà si riferiscono ad un’arte difficile, sottilissima, raffinatissima, esasperata sublimazione della tensione erotica.
Ne La struttura dell’iki, Kuki Shūzō, descrivendo i caratteri della seduzione spiritualizzata, afferma che essa deve saper rinunciare al proprio fine ipotetico; questa rinuncia, apparentemente viziata da un controsenso, favorisce piuttosto il dispiegarsi della sua essenza originaria. Anche il protagonista de La casa delle belle addormentate di Yasunari Kawabata, sembra condividere Jun’ichirō Tanizaki: chi vuole toccare con mano la beltà, è condannato a dissolverla e a rovinarla. Come noi occidentali che, amanti del chiarore, del luccichio sfavillante, al fine di scrutare meglio e con nitidezza la natura, la abbiamo da tempo asservita e devastata. Ed anche in ciò, dice Jun’ichirō Tanizaki, sta la differenza degli orientali; i quali, sacerdoti della religione dell’ombra, si rassegnano alle circostanze della vita.
Pochi anni dopo, quando il Giappone uscirà distrutto dalla seconda guerra mondiale, marciando a tappe forzate verso forme selvagge di occidentalizzazione, molti aspetti, fra quelli originari della sua cultura, verranno rapidamente obliati. E non si terrà più in alcun conto delle preziose parole di Jun’ichirō Tanizaki: La perla, fosforescente nei luoghi bui, smarrisce alla luce del sole gran parte del suo fascino. Non v’è bellezza in lei, fuorché quella creata dai contrasti di luce ed ombra.